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Legislatura X - Commissione speciale tutela minori - Resoconto del 30/09/2019 pomeridiano

    Resoconto integrale n. 11

    Seduta del 30 settembre 2019

     

    Il giorno 30 settembre 2019 alle ore 14,30 è convocata, con nota prot. n. AL.2019.21036 del 24/09/2019, presso la sede dell’Assemblea legislativa in Bologna Viale A. Moro n. 50, la Commissione speciale d’inchiesta circa il sistema di tutela dei minori nella Regione Emilia-Romagna

     

    Partecipano alla seduta i consiglieri:

     

    Cognome e nome

    Qualifica

    Gruppo

    Voto

     

    BOSCHINI Giuseppe

    Presidente

    Partito Democratico

    4

    presente

    SENSOLI Raffaella

    Vicepresidente

    Movimento 5 Stelle

    2

    assente

    TARUFFI Igor

    Vicepresidente

    Sinistra Italiana

    1

    presente

    ALLEVA Piergiovanni

    Componente

    L’Altra Emilia Romagna

    1

    assente

    BARGI Stefano

    Componente

    Lega Nord Emilia e Romagna

    1

    presente

    BENATI Fabrizio

    Componente

    Partito Democratico

    4

    presente

    BERTANI Andrea

    Componente

    Movimento 5 Stelle

    1

    presente

    CALLORI Fabio

    Componente

    Fratelli d’Italia

    1

    presente

    CALVANO Paolo

    Componente

    Partito Democratico

    5

    presente

    DELMONTE Gabriele

    Componente

    Lega Nord Emilia e Romagna

    1

    assente

    FACCI Michele

    Componente

    Fratelli d’Italia

    1

    presente

    GALLI Andrea

    Componente

    Forza Italia

    1

    presente

    LIVERANI Andrea

    Componente

    Lega Nord Emilia e Romagna

    1

    assente

    MARCHETTI Daniele

    Componente

    Lega Nord Emilia e Romagna

    1

    presente

    MARCHETTI Francesca

    Componente

    Partito Democratico

    4

    presente

    MONTALTI Lia

    Componente

    Partito Democratico

    4

    presente

    MORI Roberta

    Componente

    Partito Democratico

    4

    presente

    PETTAZZONI Marco

    Componente

    Lega Nord Emilia e Romagna

    1

    assente

    PICCININI Silvia

    Componente

    Movimento 5 Stelle

    1

    presente

    POMPIGNOLI Massimiliano

    Componente

    Lega Nord Emilia e Romagna

    1

    assente

    PRODI Silvia

    Componente

    Misto

    1

    presente

    RAINIERI Fabio

    Componente

    Lega Nord Emilia e Romagna

    1

    assente

    RANCAN Matteo

    Componente

    Lega Nord Emilia e Romagna

    1

    assente

    SASSI Gian Luca

    Componente

    Misto

    1

    presente

    TAGLIAFERRI Giancarlo

    Componente

    Fratelli d’Italia

    1

    presente

    TORRI Yuri

    Componente

    Sinistra Italiana

    1

    assente

    ZOFFOLI Paolo

    Componente

    Partito Democratico

    4

    presente

     

     

     

    È presente il consigliere Gian Luigi MOLINARI in sostituzione di Francesca MARCHETTI per parte di seduta.

     

    Partecipano alla seduta: C. Pascarella (Psicologo, già coordinatore per gli affidi e le adozioni del servizio di Neuropsichiatria infantile AUSL RE), D. Scrittore (PO Comune di Reggio Emilia, componente del Tavolo regionale su "Linee di indirizzo regionali per l'accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamento/abuso")

     

    Presiede la seduta: Giuseppe Boschini

    Assiste la segretaria: Annarita Silvia Di Girolamo

    Funzionario estensore: Vanessa Francescon

     


    DEREGISTRAZIONE CON CORREZIONI APPORTATE AL FINE DELLA MERA COMPRENSIONE DEL TESTO

     

    -     Audizione del Dott. Carmine Pascarella (Psicologo, già coordinatore per gli affidi e le adozioni del servizio di Neuropsichiatria infantile AUSL RE)

     

    Giuseppe BOSCHINI, Presidente della Commissione. Diamo inizio alla seduta odierna, che ha il seguente ordine del giorno: audizione del dottor Carmine Pascarella, psicologo, già coordinatore per gli affidi e le adozioni del servizio di neuropsichiatria infantile dell’AUSL di Reggio Emilia.

    Seguirà l’audizione della dottoressa Daniela Scrittore, che è già arrivata e ci attende fuori, PO del Comune di Reggio Emilia, componente del Tavolo regionale sulle linee di indirizzo regionali per l’accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamento e abuso.

    Naturalmente, se lo riterremo, seguirà eventuale dibattito e discussione.

    Prima di passare all’audizione del dottor Pascarella, do, come sempre, lettura del nostro disclaimer.

    Ricordo ai commissari e ai nostri ospiti che la Commissione d’inchiesta istituita in ambito regionale non gode delle prerogative di cui all’articolo 82 della Costituzione, ossia dell’equiparazione ai poteri e ai limiti dell’Autorità giudiziaria. L’eventuale audizione da parte della Commissione di persone indagate in procedimenti penali avviene esclusivamente in ragione del loro ruolo e della loro funzione, a prescindere dalla circostanza che essi siano coinvolti o meno in procedimenti giudiziari. La nostra istruttoria in tali casi non dovrà mirare ad accertare se siano stati commessi o meno reati, spettando l’azione penale esclusivamente al Pubblico ministero. Gli esiti degli atti della nostra inchiesta potrebbero, tuttavia, essere richiesti o messi a disposizione della magistratura.

    Ricordo ai collaboratori regionali che da parte loro non è opponibile alla Commissione d’inchiesta il segreto d’ufficio, ai sensi dell’articolo 60 del Regolamento. Ricordo ai pubblici ufficiali incaricati di pubblico servizio presenti in aula i doveri e gli obblighi derivanti dal loro ruolo in merito alla denuncia all’Autorità giudiziaria di un reato di cui abbiano avuto notizia nell’esercizio a causa delle loro funzioni, ai sensi dell’articolo 331 del Codice di procedura penale, nonché le eventuali sanzioni derivanti dall’omessa o ritardata denuncia, ai sensi dell’articolo 361 del Codice penale.

    Ricordo, altresì, che, ai sensi dell’articolo 70 della legge n. 184/1983, i pubblici ufficiali incaricati di un pubblico servizio sono tenuti a riferire alla Procura della Repubblica presso il Tribunale per i minorenni sulle condizioni di ogni minore in situazioni di abbandono di cui vengano a conoscenza in ragione del proprio ufficio. In caso contrario, sono punibili ai sensi dell’articolo 328 del Codice penale.

    Ricordo che la nostra attività è, come di ordinario, soggetta alle vigenti norme in materia di trattamento dei dati personali, in particolare della normativa che tutela i dati sensibili dei minori, nonché alle norme in materia di offesa dell’altrui reputazione, come la diffamazione ex articolo 595 del Codice penale. Alla luce della normativa vigente in materia di dati sensibili, pronunciare il nome di minori o di persone sottoposte a indagini o fornire dati o informazioni che ne consentano, anche in via indiretta, l’identificazione può prevedere sanzioni.

    Infine, si fa presente che l’audizione, oltre a essere verbalizzata integralmente in forma audio e trascritta, è soggetta a diffusione in diretta tramite streaming sul sito istituzionale dell’Assemblea legislativa, salvo diversa indicazione o richiesta dei commissari e degli intervenuti. Pertanto, visto il divieto di diffusione di dati sensibili previsti dalla normativa vigente, non è consentito pronunciare nomi di minori o di persone sottoposte a indagine, nonché fornire qualsiasi dato o informazione che ne consentano, anche in via indiretta, l’identificazione.

    Ciò premesso, con il dottor Pascarella avevamo definito la seguente tematica dell’audizione: casi e percorsi di tutela minorile e affidi familiari, vista anche la sua concreta esperienza, e ruolo dei servizi di neuropsichiatria infantile. Il dottore mi ha detto che preferisce iniziare dalle nostre domande. Abbiamo davanti un rappresentante, fino a pochi mesi fa, della neuropsichiatria infantile e dei servizi di neuropsichiatria infantile, in particolare della provincia di Reggio Emilia. Ci siamo accordati per questa tematica che verte sul ruolo dei servizi di neuropsichiatria infantile nei percorsi di tutela minorile e di affido familiare.

    Vedo che la collega Mori si è già prenotata. Le do la parola per la prima domanda.

     

    Consigliera Roberta MORI. Grazie, presidente.

    Buongiorno e grazie per la disponibilità di essere audito. Proprio per l’esperienza professionale e teorica, oltre che pratica, che ha maturato nel corso degli anni al servizio, certo, del Servizio sanitario, ma anche degli enti locali e delle famiglie affidatarie, le chiedevo qualche connotazione, anche di disciplina, in più sull’istituto dell’affido familiare: chi può diventare affidatario, i percorsi di formazione, se ci sono obblighi nazionali di formazione e, se sì, quali. Questo perché nel corso di queste audizioni abbiamo compreso esserci nel campo della tutela dei minori, quindi dell’organizzazione dei sistemi di supporto di protezione dei minori, anche declinazioni differenti, proprio per una carenza a livello nazionale di una normativa più stringente rispetto alle modalità.

    Rispetto al tema dell’affido e al superiore interesse del minore, che è alla base dei provvedimenti di tutela, cercare di capire quali sono le modalità di scelta delle famiglie affidatarie. Soprattutto, è emerso durante le audizioni, certo, le famiglie affidatarie, ma anche quelle in emergenza sono formate? In che senso? In che termini? Un’illustrazione ‒ se è possibile ‒ rispetto alle sue esperienze anche del rapporto con le famiglie affidatarie, del supporto a questo importante ruolo di corresponsabilità nell’educazione, nelle relazioni affettive nel tempo che, ovviamente, è dato di tutela.

    Grazie mille.

     

    Dott. Carmine PASCARELLA, Psicologo, già coordinatore per gli affidi e le adozioni del servizio di Neuropsichiatria infantile AUSL RE. Buongiorno a tutti.

     

    Presidente BOSCHINI. Deve integrare, collega Mori?

     

    Dott. PASCARELLA. Chiedo scusa.

     

    Presidente BOSCHINI. Procediamo, per ora, una domanda alla volta.

    Prego.

     

    Dott. PASCARELLA. Buongiorno a tutti. Grazie per l’invito.

    Questa prima domanda è già molto articolata e richiede, ovviamente, una risposta articolata. Io ve la declino nella prassi del distretto di Reggio Emilia, un distretto che comprende circa 200.000 abitanti. Poi, magari, mi potete anche fare domande specifiche.

    Il tema dell’affido familiare intanto è normato dalla legge n. 184/1983, novellata dalla legge n. 149/2001. Questi sono i nostri riferimenti nazionali che, a loro volta, concentricamente trovano cornici nella Convenzione dell’Aja del 1993 e nella legge sui diritti del fanciullo della Convenzione di New York del 1989.

    Fatta questa premessa, noi abbiamo anche altri riferimenti. Quali sono? Ad esempio, le direttive regionali sull’accoglienza. A livello più locale, i servizi fanno riferimento a quanto disposto dalla Regione Emilia-Romagna. Come funziona l’affido familiare a Reggio Emilia? Intanto faccio qualche precisazione anche dal punto di vista psicologico. Scusatemi se approfitto della mia professione, però è doveroso farlo. L’affido familiare si configura come un intervento di aiuto a una famiglia di origine temporaneamente in difficoltà. Ad esempio, a me piace parlare di famiglia affidataria non tanto che finalizza la sua disponibilità all’accoglienza di un minore, ma finalizza la propria disponibilità all’aiuto a una famiglia affidataria temporaneamente in difficoltà nel prendersi cura del proprio minore. Vedete che se spostiamo l’ottica dando questa accezione, sottolineiamo anche come l’affido sia, in effetti, temporaneo e che il bambino accolto dalla famiglia affidataria è un bambino che viene incluso nelle relazioni della famiglia affidataria, nelle relazioni intrafamiliari, ma non viene inglobato nella famiglia affidataria, perché è fondamentale la progettualità finalizzata al recupero delle competenze genitoriali per riaccogliere il proprio bambino.

    Noi facciamo valutazioni soprattutto riferite agli affidi che definiamo “affidi giudiziali”, cioè disposti dal Tribunale per i minorenni. Esistono, però, anche affidi giudiziali dove è maggiore la condivisione del progetto da parte delle famiglie di origine. In ogni caso, noi puntiamo sempre alla costruzione di tendenze armonizzanti nell’affido. L’affido certamente implica anche la consapevolezza di lavorare su una potenzialità conflittuale alla quale il bambino non deve essere esposto, pena conflitti di lealtà. Quindi, l’aiuto al bambino va pensato attraverso un’idea del crescere tra diverse appartenenze che si integrano tra loro.

    Non entro nella tipologia degli affidi. Spesso si sente parlare di affidi. Io ve li posso soltanto elencare. Esistono ‒ come vi dicevo prima ‒ affidi giudiziali e affidi consensuali, esistono affidi a breve termine e a lungo termine, esistono anche affidi che potremmo chiamare “di sostegno”, cioè che avvengono per un certo periodo della giornata, quando troviamo situazioni che implicano una difficoltà relativa alla carenza di reti. Pensiamo al nucleo monoparentale di una mamma immigrata dal Ghana che fa pulizie negli uffici in orari non compatibili con l’apertura dei servizi per l’infanzia. Pensiamo a orari serali. Qui non abbiamo una particolare compromissione delle competenze genitoriali.

    Devo anche dire che l’affido rappresenta, nell’intervento dei servizi, l’ultima ratio, perché segue tutta un’altra serie di interventi finalizzati alla costruzione di reti di sostegno, al potenziamento delle competenze genitoriali, quindi interventi integrati che possono essere realizzati dal servizio di neuropsichiatria infantile, soprattutto per quanto attiene alla genitorialità, ma in integrazione con i servizi sociali e, magari, anche in integrazione con altri servizi, quali il SerT oppure la psichiatria adulti.

    Sottolineo il termine “integrazione” ‒ che è peraltro previsto da tutte le normative ‒ “psicosociale” nel senso che l’équipe minima che lavora sull’affido è costituita dallo psicologo e dall’assistente sociale. Intendo “psicosociale” senza lineetta, ma proprio “psicosociale” tutta una parola. Quando noi ci rapportiamo con situazioni nelle quali soprattutto i bambini vivono percorsi di crescita che si caratterizzano per passaggi e per rotture, noi dobbiamo anche operativamente rappresentare l’integrazione come una ricostruzione, la proposizione di un modello che tiene assieme soprattutto le esperienze affettive del bambino che può essere esposto al cambiamento di famiglia.

    A Reggio Emilia come lavoriamo? Intanto dobbiamo dire che la nostra realtà distrettuale ci ha sempre proposto la candidatura di disponibilità da parte di famiglie affidatarie o, ovviamente, di persone single. Da questo punto di vista non c’è un vincolo di legge. L’affido non ha gli stessi vincoli della legge sull’adozione, quindi non ci sono nemmeno problemi di età. In ottemperanza alla direttiva regionale sull’accoglienza del 2011 (questo, in realtà, noi lo facevamo anche prima), noi attiviamo percorsi formativi rivolti alle famiglie o alle persone che si rendono disponibili. Nello scorso anno abbiamo avuto circa una sessantina di nuclei familiari che si sono proposti ai nostri corsi. Nello scorso anno ne abbiamo fatti quattro. Quindi, abbiamo una media di 15-20 persone che partecipano ai nostri percorsi formativi. Un nucleo familiare ‒ lo chiamo “nucleo familiare” per non stare a distinguere tra famiglia e persona single ‒ ha la possibilità di rivolgersi ai servizi sociali nei vari poli territoriali nei quali è suddiviso il distretto di Reggio Emilia, dove ricevono una prima informazione sull’affido familiare, sulla differenza tra affido e adozione, quindi informazioni abbastanza generali.

    Dopodiché, iniziamo un lavoro di gruppo articolato in cinque serate. Recentemente credo sia stato ridotto a quattro. Lo facciamo di sera per consentire alle famiglie una maggiore possibilità partecipativa. Vengono affrontate diverse tematiche, che vanno, ovviamente, dalla filosofia sottesa alla normativa sull’affido a quali devono essere le caratteristiche della famiglia affidataria; rappresentiamo le problematiche che possono essere presentate dalla famiglia di origine e quali sono i bisogni dei bambini nel loro percorso di affido. Quindi, facciamo un focus sui tre principali protagonisti dell’affido, ma anche sul rapporto con i servizi e su quelli che sono i diritti e i doveri della famiglia affidataria. Ai nostri percorsi formativi partecipa anche un esperto giuridico. Per esempio, gli assegni familiari a chi spettano? Che cosa bisogna fare se un bambino si fa male? Quali sono quelle circostanze nelle quali la famiglia affidataria può decidere autonomamente e quali sono, invece, quelle circostanze ‒ le circostanze straordinarie ‒ nelle quali è necessario avere il parere della famiglia di origine? Vedi la comunione, la cresima, un ricovero in ospedale, cioè tutti gli eventi che non rientrano nella ordinarietà.

    È un percorso formativo ‒ come vi dicevo ‒ che dura cinque serate, molto gradito, molto interattivo, nel quale facciamo fare alle famiglie anche alcune esercitazioni, proponendo casi travisati, in modo che non siano riconoscibili, e chiediamo loro che interventi metterebbero in atto nei confronti di una particolare situazione che viene presentata. È un percorso teorico, un percorso anche esperienziale, che sollecita non solo l’aspetto cognitivo, ma anche la pancia delle persone.

    Fatto questo percorso, chi desidera partecipare si candida. Ci possono essere anche persone che dicono: “Ho conosciuto l’affido più da vicino, però non fa per me”. Quindi, si può creare anche una selezione che, da questo punto di vista, è estremamente positiva perché ci permette una certa scrematura delle risorse. Chi decide di proseguire partecipa a un percorso di conoscenza della coppia o della persona single. Una volta questo percorso veniva chiamato con un termine non molto bello, ossia “istruttoria”, che evidenziava la valenza estremamente valutativa. Tramite il percorso di conoscenza della coppia si tende a conoscere la biografia delle persone, come sono cresciute, quali erano e come erano i legami affettivi con i propri genitori, come vengono rappresentati, come è stato il percorso scolastico, come hanno attraversato il periodo dell’adolescenza, fino alla scelta lavorativa. Questo lo facciamo, ovviamente, per entrambi i genitori. Sono percorsi abbastanza approfonditi, ma non così invasivi, però ci permettono già di avere una percezione di quelli che sono i legami vissuti e la capacità di costruire legami che sappiano accogliere, ma che sappiano anche lasciare andare.

    Poi procediamo ad un racconto, ad una raccolta della storia di coppia: come è avvenuto l’incastro relazionale fra i coniugi – adesso mi riferisco di più alle coppie, naturalmente, perché per le persone singole è un po’ diverso –? E come è nato il loro progetto di convivenza, che può essere di convivenza o di matrimonio? E come si sono rapportati con le loro famiglie di origine, come ognuno dei coniugi ha costruito una relazione con la famiglia dell’altro coniuge.

    Arriviamo quindi a conoscere, a tipizzare le dinamiche di coppia, per poi passare ad esplorare qual è stata la motivazione relativa alla disponibilità all’affido. Io uso sempre il termine “disponibilità”, anche perché lo prevede pure la legge adesso, sia per quanto riguarda l’affido, che per quanto riguarda l’adozione. Non si domanda un bambino in affido. Domandare un bambino in affido implica richiedere una risposta a un proprio bisogno. La dichiarazione di disponibilità, o la disponibilità all’affido può anche voler dire che il bambino non viene collocato nella famiglia che si rende disponibile. Vediamo quindi come nasce questa motivazione, se è una motivazione di tipo solidaristico, se è una motivazione relativa al fatto che non è arrivato un secondo figlio, nel caso della famiglia nella quale siano presenti figli naturali, e quindi affrontiamo questa problematica. Apro una parentesi (teorica): sono preferibili, nell’affido familiare, famiglie che abbiano già figli naturali perché hanno in qualche modo saturato il loro desiderio di genitorialità e la disponibilità all’affido è meno a rischio di valenze appropriative. Questo è un concetto di massima. Il che non esclude anche il fatto che ci sono state esperienze di accoglienza verso bambini da parte di coppie che non avevano figli. Una volta esplorate tutte le motivazioni cominciamo ad esplorare quali sono le rappresentazioni che hanno in mente del bimbo che potrebbero accogliere, quindi in relazione all’età, in relazione al sesso, in relazione alle possibili problematiche anche comportamentali che un bambino potrebbe avere, in relazione alla famiglia di origine: sareste disponibili ad accogliere un bambino in affido la cui famiglia ha problemi ad esempio con la giustizia? Oppure, una famiglia Rom? Affrontiamo quindi tutte queste problematiche, per vedere anche quali potrebbero essere eventuali pregiudizi, o atteggiamenti giudicanti che potrebbero invece pregiudicare il buon funzionamento dell’affido.

    Una famiglia affidataria deve certamente avere un perimetro, però deve essere un perimetro che consente una certa osmosi, quindi un lasciare entrare e un lasciare uscire. Io faccio sempre l’esempio di una famiglia affidataria di (Omissis…), che ha avuto in affido un bambino del (Omissis…), che poi è cresciuto in questa famiglia affidataria. La famiglia affidataria ha imparato a cucinare la cucina (Omissis…) e la mamma (Omissis…) fa i cappelletti (a Bologna si chiamano tortellini). Questo meticciamento è importante per poter in qualche modo consentire al bambino di sentirsi accolto nella famiglia affidataria con tutto il suo universo relazionale. C’è quindi una specie di reciproca contaminazione, quando le cose ovviamente funzionano al meglio. Una volta che abbiamo raccolto la disponibilità delle famiglie attraverso un percorso di valutazione della coppia, noi le inseriamo – io sto parlando al presente –, le inserivamo in una banca-dati, che è praticamente la banca delle risorse in capo al distretto di Reggio Emilia.

    Nel contempo, nei poli territoriali, esistono équipe psicosociali che seguono, anzi, che si prendono cura, di situazioni particolarmente problematiche, per le quali si rende necessario, una volta esperiti tutti gli altri interventi di supporto, l’inserimento presso una famiglia affidataria, a seconda ovviamente dei tempi. Possono essere affidi parziali, affidi a tempo pieno, o affidi giudiziali. Quando si presenta una situazione di questo genere presso i poli territoriali, noi abbiamo istituito un’équipe, che potremmo chiamare l’équipe dell’abbinamento, dove gli operatori dei vari distretti ci portano le storie e le problematiche di questi bambini. È già stato deciso, ovviamente, dall’équipe di riferimento la necessità di un affido. Con gli operatori che si prendono cura di questi bambini, quindi, proviamo a lavorare sulla costruzione del miglior abbinamento possibile fra la banca delle risorse, che sono le nostre famiglie che abbiamo tipizzato e la banca dei bisogni che sono rappresentati dai bambini.

    Quando riusciamo a costruire un abbinamento che sia il migliore possibile per quel bambino, quindi, incrociamo bisogni e risorse allora chiamiamo la famiglia che si era candidata per l’affido e inizia, con l’assistente sociale di riferimento e con un rappresentante che ha seguito magari la formazione, che conosce già la famiglia, un percorso nel quale presentiamo le caratteristiche del bambino alla famiglia scelta, che ha la possibilità ovviamente di pensare e di riflettere. Un conto è essere disponibili ad accogliere un bambino in affido, un conto è poi fare i conti con un bambino reale, quindi dobbiamo dare un po’ di tempo alla famiglia. Se la famiglia ci dà la sua disponibilità, iniziamo un percorso di conoscenza che ha una sua gradualità, che è connessa o con l’età del bambino o con la problematica del bambino. E poi la famiglia diventa una famiglia affidataria a pieno titolo.

    Noi cosa facciamo? Facciamo un progetto affido. Tale progetto affido prevede che il primo capitolo di questo progetto si intitoli “che cosa facciamo per la famiglia di origine”. Questo è un dato assolutamente importante, che ci dà proprio l’idea, appunto, della temporaneità per preservarci dal rischio di fantasie, chiamiamole appropriative. Poi, oggigiorno, le nostre famiglie sono preparate, avevamo, fino al 2018, un buon flusso di richieste.

    L’affido deve essere seguito dall’assistente sociale e dallo psicologo. Questo io lo teorizzo sempre, perché nei confronti di una famiglia, il singolo operatore, sia esso anche lo psicologo o il neuropsichiatra, è un operatore che si trova a confrontarsi con un sistema più forte dell’individualità dell’operatore. Che spesso, per quanto sia anche molto preparato, si muove dentro una serie di dinamiche affettive che sono piuttosto coinvolgenti. Capite infatti che allontanare un bambino non è una cosa semplice. L’operatore, dal punto di vista delle sue dinamiche interne si muove dentro alcune polarità. Una potrebbe essere quella del salvatore: io ti metterò in una condizione nella quale starai meglio; una è quella, chiamiamola “del ginecologo”: posso darti io un bambino; una è quella del giudice: adesso stabiliamo delle regole.

    Queste tre cose che vi ho nominato, ovviamente fanno parte delle fantasie più o meno consce degli operatori, e tutti ce le hanno. Per cui, il lavoro di équipe, da questo punto di vista, è di rigore, è fondamentale. Non si può lavorare da soli con una famiglia affidataria, con una famiglia di origine e con il bambino. È quindi fondamentale che ci siano questo bilanciamento, questa lettura condivisa, per poter far fronte anche a questi rischi.

    Il bambino ha il diritto di essere informato e di essere ascoltato sui progetti che vengono fatti su di lui. Quindi, un bambino, ancorché piccolo, deve sapere quello che si progetta per lui. Con parole integrabili nel suo attuale sistema cognitivo, però il bambino lo deve sapere. Durante l’affido i bambini devono essere visti con regolarità. Se non ci sono particolari esigenze di natura psicoterapeutica, neuropsichiatrica, comunque tutti i bambini devono essere seguiti con una frequenza che grosso modo, se la situazione è tranquilla, durante l’evoluzione dell’affido, può essere quella di una volta ogni mese e mezzo, una volta ogni due mesi. Questo perché anche quello che noi comunichiamo al bambino ovviamente richiede successive rielaborazioni in relazione alla sua età. Quindi, un intervento che abbia una buona qualità per l’affido prevede momenti di ascolto calendarizzati per il bambino, dove si realizzano funzioni di coordinamento, di contenimento, di accompagnamento.

    Il bambino deve anche sapere quali possono essere le difficoltà dei suoi genitori, perché se allontanato dalla sua famiglia non sapendo quali sono le difficoltà dei suoi genitori, potrebbe anche arrivare a pensare che forse c’è qualcosa in lui che non va. Quindi, è bene dare sempre una rappresentazione realistica delle problematiche esistenti. Non solo, ma bisogna anche informare il bambino, che potrebbe sentirsi in colpa per essere passato da una situazione di disagio socio-economico a una situazione di maggiore agio, e quindi aver lasciato i genitori in una condizione più critica, è importante che il bambino sappia anche che cosa si sta facendo e chi sta facendo qualcosa per aiutare i suoi genitori a recuperare le funzioni genitoriali che prima erano state valutate carenti.

    La famiglia di origine ha diritto a essere ascoltata. A volte noi organizziamo anche incontri fra le due famiglie per leggere quali sono i segnali che il bambino in evoluzione ci dice, e anche questa è una modalità che facilita la collaboratività e la responsabilizzazione genitoriale da parte delle famiglie di origine. Le famiglie affidatarie sono considerate risorse per il servizio, ma in realtà potrebbero anche loro diventare portatrici di bisogni. Ma io sto chiedendo troppo? Sto chiedendo troppo poco al bimbo in affido? Mi devo far chiamare Susanna o mi devo far chiamare mamma? Quindi, anche nell’esperienza del bimbo accolto in affido, nella famiglia affidataria possono insorgere interrogativi, domande relative al percorso di crescita, o relative al comportamento del bambino. Quindi, questo intervento di accompagnamento, come vedete, deve essere rivolto a tutti e tre i protagonisti dell’affido nelle diverse forme.

    Noi anche a Reggio abbiamo attivato dei gruppi rivolti a famiglie affidatarie che hanno accolto bambini in affido, perché il lavoro di gruppo ci permette un confronto, un rispecchiamento. Ogni famiglia può diventare portatrice di un interrogativo nel gruppo, ma anche autrice di problem solving: io questa cosa l’avevo affrontata in questo modo.

    Quindi, abbiamo gruppi che hanno una frequenza di circa una volta al mese, una volta ogni quarantacinque giorni, che sono rivolti alle famiglie affidatarie. Avevamo in programma anche la possibilità di costruire gruppi – qui è un pochino più difficile – anche di sostegno nei confronti delle famiglie di origine. Credo che anche questa sia una possibilità che vada perseguita.

    Non so se ho risposto a tutto.

     

    Presidente BOSCHINI. In maniera molto organica. Anzi, dottore, naturalmente per le prossime domande, avendo già avuto da lei una introduzione così corposa, diamo sicuramente per assunte le cose importantissime che ci ha detto adesso, quindi possiamo essere un pochino più stringente.

    Io ho iscritti i colleghi Prodi, Tagliaferri, Bargi e Bertani. Intanto diamo la parola alla collega Prodi, poi vediamo come procedere.

     

    Consigliera Silvia PRODI. Intanto ringrazio perché è stata un’esposizione molto interessante, si evince un sistema molto pensato, senz’altro è un sistema che mi sento di ritenere molto competente e affidabile.

    La mia domanda: visto che lo scopo di questa Commissione è praticamente andare a sondare il sistema normativo e organizzativo per capire se ci sono dei margini di miglioramento, perlomeno dei punti critici, posto che quello che lei descrive è il sistema dell’affido nel distretto di Reggio Emilia, chiedo se è possibile fare a grandissime linee un’analisi comparata fra distretti. Vorrei sapere se queste pratiche avevano anche un riconoscimento e uscivano dal distretto di Reggio, in particolare mi riferisco al caso della Val d’Enza, e anche per quanto riguarda l’organizzazione del servizio, nel senso proprio del personale, e anche sul ricorso o meno ad esternalizzazioni delle competenze, in particolare, appunto, di psicoterapia e percorsi di questo tipo.

    Un inciso minuscolo: a uno che si trova nel distretto di Reggio Emilia, la domanda è quindi: è in base al polo in cui risiede viene assegnata un’équipe, in base alla residenza? Così mi sembra di capire.

     

    Presidente BOSCHINI. Dottore, magari raccogliamo un’altra domanda e poi rispondiamo più sinteticamente a due domande insieme.

    Collega Tagliaferri.

     

    Consigliere Giancarlo TAGLIAFERRI. Grazie, presidente.

    Buonasera, dottore. Sono molto felice della sua presenza oggi, perché spero finalmente di fare luce grazie alla sua collaborazione sulla natura più o meno sperimentale della struttura “La Cura” di Bibbiano circa i protocolli utilizzati per la messa in sicurezza dei minori a Reggio Emilia.

    Una prima domanda è questa: il centro “La Cura” di Bibbiano è o non è un secondo livello? Le chiedo questo perché una risposta datami dall’allora assessore Gualmini lasciava intendere che lo fosse, in quanto lo inquadrava all’interno dell’articolo 18 della legge regionale n. 14/2008. Di contro, i vertici regionali di Sanità ed Assistenza Sociale lo hanno escluso. Chiedo, quindi, a lei, che opera a livello territoriale, ritengo anche con l’Unione Val d’Enza, una risposta in merito.

    Una seconda domanda, e qui vengo alla fatidica sperimentazione. In più inviti per compiere i convegni, nonché in una risposta sempre dell’assessore Gualmini, il centro “La Cura” è qualificato quale centro sperimentale, anche se gli uffici regionali ci dicono che nessuna sperimentazione risulta autorizzata. Chiedo, quindi, a lei, che opera sul territorio, se l’AUSL di Reggio Emilia sia a conoscenza di eventuali sperimentazioni condotte presso il centro “La Cura” e, in caso affermativo, quali siano queste sperimentazioni.

    Una terza domanda. L’AUSL di Reggio Emilia ha organizzato, negli ultimi anni, la formazione degli operatori dei servizi sociali delle diverse Unioni di Comuni del Reggiano, o così almeno risulta negli atti delle Unioni stesse, ricorrendo a supporto di “Hansel e Gretel”: me lo conferma? Chi ha assunto tale decisione? Ritiene che il dottor Foti e i suoi collaboratori fossero stati scelti perché propugnavano tesi particolari o per cos’altro?

    Una quarta domanda, che riguarda un elemento sul quale penso lei possa fare piena luce. Più di un mese fa abbiamo presentato un accesso agli atti per chiedere alle AUSL di tutta la Regione i protocolli sul trattamento dei minori in caso di maltrattamento e abuso e sull’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. Normalmente la risposta arriva in cinque giorni, questa volta ci hanno fatto attendere un mese. Ma quando la risposta è arrivata, era corredata dai protocolli utilizzati in tutte le AUSL della Regione, ad eccezione di quella di Reggio Emilia. Da questo si può dedurre che un funzionario regionale molto distratto si sia scordato di inviarci proprio il protocollo di Reggio Emilia o che tale protocollo non esista perché non è ancora stato fatto? Su questo, in particolare, mi aspetto una risposta quanto mai chiara da parte sua, e cioè se il protocollo non è arrivato e per quale motivo, se è stato fatto o se non è stato fatto, o se è stata una semplice distrazione di chi ci ha inviato la risposta all’accesso agli atti.

    Una quinta domanda, che riguarda l’opportunità di coinvolgere negli affidi familiari altri operatori del settore o loro congiunti. Non ritiene che questo elemento, che almeno in questo caso sembra emergere e che mi auguro resti isolato, vada poi a costituire una molla che fa deflagrare polemiche in ordine alla monetizzazione dei minori che sembrerebbe emergere alle spalle del caso di Bibbiano? In altre parole, non ritiene che, al di là delle graduatorie o di metodi trasparenti di assegnazione soprattutto nell’affido d’urgenza motivato dalla necessità di estrarre il minore, venga lasciata una discrezionalità eccessiva all’operatore in merito alla scelta del soggetto al quale il minore viene affidato, che se attuata all’interno dello stesso circuito può sembrare motivata da tornaconto economico?

    Mi rendo conto che le sto facendo molte domande. Eventualmente, dopo il presidente saprà come metterle una dietro l’altra.

    Un’ultima domanda. Proprio adesso ha parlato di “banca delle risorse”, spiegando come l’équipe di riferimento si rivolge a queste équipe per gli abbinamenti per individuare la famiglia migliore cui affidare il singolo minore. Questo procedimento che ci ha appena illustrato è stato utilizzato in tutti i distretti, anche nel caso di Bibbiano? Cioè, è stata questa équipe per gli abbinamenti a stabilire al meglio le famiglie o i singoli cui affidare i minori di Bibbiano? O quelle scelte sono state operate a livello locale, senza passare da queste équipe? Cioè, le linee guida regionali prevedono questo metodo?

    Mi spiace di averle posto veramente molte domande.

     

    Presidente BOSCHINI. Non c’è nessun problema. Se il dottore ha bisogno, poi le ripercorriamo insieme.

    Allora, la collega Prodi chiedeva se la procedura che lei ci ha presentato analiticamente prima si applica in tutti i distretti, a livello reggiano in particolare.

     

    Dott. PASCARELLA. La procedura di cui vi ho parlato si applica a livello del distretto di Reggio Emilia. E qui mi viene in mente un’altra cosa. Le famiglie che vengono ai percorsi formativi che vengono fatti a Reggio possono anche essere famiglie provenienti da altri distretti, per cui non sempre gli altri distretti, ad esempio Bibbiano, piuttosto che Castelnovo ne’ Monti, hanno e possono avere questo tipo di procedure, ma semplicemente per un fatto numerico. D’altronde, se dovessimo attendere la composizione di un gruppo per far partire la formazione a Castelnovo ne’ Monti, i tempi sarebbero lunghissimi. Quindi, la formazione perlopiù è centralizzata. Le coppie e le famiglie che decidono di proseguire, si rivolgono al loro distretto, quindi la conoscenza della coppia viene fatta dagli operatori del distretto, in questo caso agli operatori del distretto di Bibbiano.

    Il gruppo per l’abbinamento – magari do qualche altra risposta volante – è una modalità operativa che abbiamo noi a Reggio Emilia, ma proprio per un fatto di numeri. Quindi, io non ho una conoscenza diretta nello specifico di come si opera a Bibbiano, piuttosto che a Guastalla.

    Se devo parlare di una criticità rispetto al personale, la criticità sta nel turnover e nella riduzione dei finanziamenti per quanto riguarda la spesa relativa ai servizi sociali, i concorsi che vengono fatti dopo molto tempo, la necessità di stabilizzare le persone. Questo è un elemento di criticità, che ovviamente non dipende dai servizi, ma dipende da questioni molto più ampie, che voi sapete.

     

    Presidente BOSCHINI. Chiedo scusa, le ricordo anche un’altra domanda collegata a questo: chiedeva la collega Prodi, sempre sul tema delle esternalizzazioni, se questo determina anche il ricorso a qualche esternalizzazione.

     

    Dott. PASCARELLA. Sul tema delle esternalizzazioni io ho espresso il mio parere: io sono perché queste competenze vengano internalizzate e debbano essere competenze degli specialisti che lavorano nei servizi.

    Vi faccio un esempio. A Reggio Emilia, nel 2000, nacque un gruppo provinciale per la prevenzione e il contrasto ai fenomeni dell’abuso e del maltrattamento, gruppo che venne condotto prima dal dottor Mariotti e poi dal dottor Nizzoli. Questo gruppo provinciale ha fatto molta formazione, ma era un gruppo non solo interdisciplinare e interdistrettuale, ma anche interistituzionale. Noi abbiamo fatto formazione anche, ad esempio, con gli operatori della Polizia giudiziaria, con i pubblici ministeri eccetera. Inoltre, abbiamo attivato un percorso formativo con l’ospedale Bambino Gesù di Roma, con il responsabile Francesco Montecchi dell’ospedale Bambino Gesù. Lui era il nostro formatore e supervisore, ma non ha preso in carico direttamente dei bambini. Le competenze in quel momento erano internalizzate ad alcune figure di psicologo che avevano fatto una formazione specifica.

    Per cui, io credo che stiamo parlando di specialisti – gli psicologi e gli psicoterapeuti sono degli specialisti – e la mia idea è che valga la pena internalizzare, ovviamente formando adeguatamente sul tema dell’abuso gli operatori. Il tema dell’abuso è un tema estremamente complesso, dove si scontrano tante scuole di pensiero. C’è chi dice che non esistono indicatori specifici dell’abuso, chi invece sostiene il contrario. Quindi, in questo momento in Italia ci sono diverse scuole di pensiero.

    Sicuramente la formazione da questo punto di vista, ma anche in relazione all’affido, perché parliamo di complessità, è assolutamente fondamentale e deve accompagnare, a mio avviso, un processo di internalizzazione.

     

    Presidente BOSCHINI. Passiamo, adesso, alle domande poste dal collega Tagliaferri, che chiedeva innanzitutto se “La Cura” di Bibbiano era un centro di secondo livello ai sensi dell’articolo 18 della legge regionale n. 14, se era un centro sperimentale o meno, in caso affermativo, sperimentale in che senso.

     

    Dott. PASCARELLA. Io qui non posso rispondere nel modo specifico, però mi risulta che presso il centro “La Cura” venissero presi in carico bambini del distretto di Bibbiano. Non mi risulta – non voglio essere categorico – che venissero presi in carico bambini del distretto di Reggio Emilia. Quindi, era sicuramente un centro specialistico, ma non mi sarebbe venuto da dire che tutti i bambini di tutti i distretti andassero verso il centro “La Cura”. Però, non posso essere preciso al 100 per cento.

     

    Presidente BOSCHINI. Sulla natura sperimentale vuole dire qualcos’altro?

     

    Dott. PASCARELLA. Non credo sulla natura sperimentale, perché non è mai emerso che ci fosse una natura sperimentale nell’attività di questo centro.

     

    Presidente BOSCHINI. Poi è stato chiesto se “La Cura”, anche in collaborazione con “Hansel e Gretel”, le risulta che abbia operato per la formazione di operatori a livello della provincia di Reggio Emilia, nel caso, perché sono stati scelti loro.

     

    Dott. PASCARELLA. Alla domanda “perché siano stati scelti loro” non vi so rispondere, perché è stata una scelta di un altro distretto, condivisa – credo – con la direzione. Quindi, non saprei dirvi perché è stato scelto il centro “Hansel e Gretel”, che però ha fatto sicuramente formazione con operatori del servizio di Reggio e della provincia.

     

    Presidente BOSCHINI. Benissimo.

    Poi veniva chiesto se c’è il protocollo operativo a livello di distretto.

     

    Dott. PASCARELLA. A questo non vi so rispondere. Non so perché non sia stato mandato…

     

    Presidente BOSCHINI. Però, esiste il protocollo. Semplicemente è un errore di comunicazione. A lei risulta che sia presente il protocollo?

     

    Dott. PASCARELLA. Non lo so. Non mi risulta.

     

    (interruzione)

     

    Dott. PASCARELLA. Su questo non vi so rispondere, anche perché nello specifico non mi occupo proprio di abuso sui minori.

     

    Presidente BOSCHINI. Poi veniva chiesto un parere sulla pratica di affido a congiunti, quindi se ritenga sbagliato il fatto di affidare a persone congiunte o conoscenti o ex congiunti degli operatori sociali.

     

    Dott. PASCARELLA. L’affido familiare viene proposto a persone che si candidano all’affido. Possiamo intendere per “affido a congiunti” l’affido a genitori di una coppia che presenta problematiche. Per esempio, se c’è un genitore tossicodipendente, a volte è stato sperimentato l’affido ai nonni. In questo senso l’affido a congiunti mi vede dubbioso, perché magari i nonni non sono nella posizione di tutelare il figlio. È un po’ come se si creasse un conflitto di interessi fra l’essere genitori del figlio tossicodipendente e nonni di un bambino da tutelare. Quindi, in questo caso ci sono delle controindicazioni.

     

    Presidente BOSCHINI. La domanda era soprattutto sui congiunti o ex congiunti degli operatori sociali, non della famiglia d’origine.

     

    Dott. PASCARELLA. Io credo che, da questo punto di vista, anche in questo caso si crei un conflitto di interesse. Del resto, come fai a valutare la criticità che può emergere nella relazione con un bambino, se questo bambino è stato affidato a congiunti. Quindi, l’affido deve essere proposto a persone che si candidano, ma che non si conoscono. È un po’ come prendere in terapia un paziente che si conosce. Quindi, ci dovrebbe essere un campo pulito nell’abbinamento.

     

    Presidente BOSCHINI. Mi sembra che all’ultima domanda abbia già risposto, e cioè se il procedimento di abbinamento in équipe sia usato solo a Reggio o venga usato, stando a quanto le risulta, anche a Bibbiano, in Val d’Enza.

     

    Dott. PASCARELLA. Qui posso aggiungere una cosa. Fino a quando le Province hanno mantenuto le proprie funzioni, a Reggio è esistito un coordinamento provinciale affidi e anche un coordinamento provinciale adozioni, dove abbiamo, per esempio, firmato i protocolli con gli Enti autorizzati, e il coordinamento provinciale affidi era composto dai rappresentanti dei sei distretti della provincia di Reggio Emilia. Questo ci permetteva sicuramente una programmazione, per esempio, per quanto riguarda la formazione, per quanto riguarda l’interazione e gli scambi fra i distretti, per quanto riguarda la condivisione di metodologie operative. Tutto questo, dunque, ci permetteva sicuramente un maggiore presidio di questa necessità, che purtroppo con il cambiamento delle funzioni da parte dell’Amministrazione provinciale non è stato più possibile. Era un’ottima modalità di funzionamento.

     

    Presidente BOSCHINI. Benissimo. Grazie mille, dottore, per le risposte.

    Sentiamo un altro giro di domande. Prego, collega Bargi.

     

    Consigliere Stefano BARGI. Grazie, presidente. Buonasera, dottore.

    In parte ha risposto alla domanda che volevo porle con questa sua ultima risposta alla domanda del collega Tagliaferri. Tuttavia, per entrare un po’ più nello specifico dei fatti scatenanti di questa Commissione e, quindi, dell’audizione di questo pomeriggio, vorrei porle un’ulteriore domanda.

    Visto che lei parlava di “banca delle risorse”, mi aggancio a quanto ho appreso dalla stampa quest’estate relativamente all’inchiesta “Angeli e Demoni”, e in particolare mi riferisco ad alcune intercettazioni di (Omissis…), intercettazioni nelle quali – ho sottomano un articolo di giornale del luglio di quest’anno, che ovviamente adesso evito di leggere – la (Omissis…) avrebbe parlato con alcune coppie attive in associazioni LGBT, e si fa riferimento a una città del sud Italia, e avrebbe detto che succede spesso che i coniugi che ricevono il bambino in affido si lamentino perché si affezionano e poi gli viene tolto perché torna alla famiglia originale, aggiungendo di non preoccuparsi perché, se le relazioni dei servizi sociali indicano che la famiglia originale non è adatta a crescere il bambino, può essere anche lasciato direttamente alla coppia. Addirittura, si parla di un tempo indefinito, quindi di fatto mascherando l’affido con un’adozione. Questo è quello che emerge dalla procura. Ebbene, anche se lei non operava nel distretto della Val d’Enza, però sul territorio era vicino, e ci diceva poc’anzi che, fino a quando c’era l’istituzione originaria delle Province, esisteva anche un tavolo di confronto provinciale, le chiedo intanto, nelle more di quanto vorrà renderci partecipi in questa seduta di oggi e di quanto vorrà dirci, un suo commento su queste dichiarazioni e come questa donna poteva, dall’Unione della Val d’Enza, dai servizi della Val d’Enza, riuscire a fare procedure di questo tipo e, quindi, di fatto – mi verrebbe da dire – a bypassare la banca di risorse di cui ci parlava prima.

     

    Presidente BOSCHINI. Prego, Dottore.

     

    Dott. PASCARELLA. Vi faccio alcune precisazioni, alcune di carattere generale. In Italia, il 57 per cento degli affidi diventa affidi sine die, cioè senza un rientro nella famiglia di origine, perché evidentemente le fragilità genitoriali erano così gravi da non permettere un rientro del bambino nella famiglia di origine, e questo è un grosso nodo critico che deve essere approfondito dal punto di vista scientifico e culturale.

    Per quanto riguarda, invece, l’affidamento di bambini a famiglie che abitano lontano, per esempio a Reggio Calabria, un affido di questo genere è a mio avviso improponibile, perché se l’affido implica una interazione fra servizi, famiglia di origine, famiglia affidataria, monitoraggio, incontri protetti, a Reggio Calabria è un po’ fuori mano. Quindi, noi non abbiamo mai pensato ad affidi molto lontani. Ne abbiamo uno o due che sono riferiti al fatto che ci possono essere state famiglie di origine piuttosto pericolose per cui è stato meglio mettere una certa distanza fra la famiglia affidataria e la famiglia di origine. Però, lo scopo dell’affido è proprio quello di costruire relazioni integrate. Quindi, a Reggio Calabria mi viene da pensare che non sia possibile fare un affido.

    L’altra cosa è questa. Se la famiglia affidataria è una famiglia che ha delle ansie e delle preoccupazioni relativamente all’allontanamento del bambino, questa è una famiglia che ha caratteristiche adozionali e non affidatarie e quindi magari può essere un’ottima famiglia, ma non è idonea all’affido, proprio perché teme di sperimentare il dolore per il distacco dal bambino.

    Noi valutiamo sempre che il dolore di una famiglia, anche per il distacco dal bambino, è infinitesimamente inferiore rispetto al dolore che prova il bambino nel suo distacco dalla famiglia. Cerchiamo, quindi, di favorire una rappresentazione empatica del dolore del bambino, anteponendo il bisogno del bambino al proprio bisogno di sentirsi un bambino appartenente.

    In questo caso, una famiglia con queste caratteristiche è troppo lontana ed è adozionale.

     

    Presidente BOSCHINI. Benissimo, grazie.

    Collega Bertani, prego.

     

    Consigliere Andrea BERTANI. Grazie, presidente. Intanto la ringrazio per il quadro che ci ha fatto, anche se il quadro si è concentrato molto, almeno inizialmente, sulla parte di formazione e di selezione delle famiglie affidatarie. Una parte importante comunque del lavoro di questa Commissione è cercare, invece, di capire perché ci sono dei casi, e mi sembra che siano tutti legati agli affidi giudiziari, in cui ci siano stati degli allontanamenti che sembrano essere stati “forzati” in qualche modo, perché c’è stato o un errore di giudizio per un metodo forse applicato oppure un dolo. A me interesserebbe capire anche come funziona in particolare la questione affidi giudiziari. Intanto, cosa si fa per il recupero delle competenze genitoriali? Perché se c’è un affido giudiziale vuol dire che c’è una famiglia o che ha commesso un reato o che si ipotizza che abbia commesso un reato o un abuso e quindi va allontanata e poi bisogna capire se è percorribile il recupero della famiglia e del rapporto della famiglia con il minore.

    Vorrei capire su questo campo cosa si fa. Invece, scendendo più nello specifico, mi chiedo perché in Val d’Enza non è stata l’AUSL a prendere in carico questi casi, ma invece sono stati affidati a delle consulenze esterne?

    Nell’ambito di Reggio Emilia – o se lei conosce anche in altri ambiti – questo è un percorso normale, cioè quello di utilizzare consulenze esterne per decidere e per valutare il percorso del minore? Magari, se l’avesse preso in carico il servizio pubblico forse queste cose non sarebbero successe.

    L’altro aspetto che le chiedo è questo: se dopo i casi della Val d’Enza stia calando il numero di affidi o anche il numero di famiglie che si propongono all’affido, perché il rischio è che buttiamo via anche un sistema che è necessario e che funziona. Volevo capire se questa cosa ha avuto impatto sulle famiglie che si propongono e sugli affidi.

    Lei parlava prima mi sembra di circa sessanta nuclei all’anno che vengono formati, almeno nel vostro distretto, a Reggio.

    L’altra domanda, l’ultima, riguarda l’unità di valutazione multidisciplinare. Volevo capire se nel distretto di Reggio c’è, ce n’è più d’una e se la Val d’Enza ricade in una di queste unità di valutazione multidisciplinare, perché, almeno da quello che io mi sto costruendo facendo queste audizioni è che l’unità di valutazione multidisciplinare potrebbe essere un momento di garanzia rispetto a queste distorsioni che ci sono state. Forse non sarebbero sfuggiti alcuni casi che sembrano, almeno dalle carte dell’inchiesta, molto molto gravi.

    Grazie. 

     

    Presidente BOSCHINI. Prego, dottore.

     

    Dott. PASCARELLA. La prima domanda era relativa agli affidi giudiziari. Faccio una premessa. In Italia vengono allontanati tre bambini ogni mille dalla famiglia di origine, mentre in altri Paesi europei, quali la Francia, la Germania e l’Inghilterra, la percentuale sale all’8-9 per mille e quindi vengono allontanati il triplo dei bambini che vengono allontanati in Italia, perché poi anche i media ci dicono che magari c’è stata la mamma che si è buttata giù con due bambini nel carcere di Rebibbia, l’altro bambino è morto in provincia di Salerno. Ci sono una serie di situazioni che non sono intercettate e che producono un atteggiamento esattamente opposto: ma dov’erano i servizi? Quindi, a seconda delle convenienze, soprattutto la figura dell’assistente sociale o interviene troppo o interviene troppo poco. Questa è la rappresentazione un po’ che gira.

    L’affido giudiziale è un affido che nasce da una segnalazione che viene fatta alla Procura della Repubblica presso il Tribunale dei minorenni di Bologna. È una segnalazione che può partire dalla scuola, può partire dai vigili, può partire dai servizi sociali e quindi i servizi sociali non sono gli unici che segnalano al Tribunale per i minorenni. Se la Procura ritiene che ci siano elementi di pregiudizio per il bambino avvia la pratica presso il Tribunale per i minori.

    Grosso modo le segnalazioni che vengono fatte presso il Tribunale per i minorenni sono segnalazioni piuttosto gravi, tipo, ad esempio, un bambino che va a scuola e che presenta dei lividi, genitori che fanno uso di sostanze che compromettono il loro stato di vigilanza, quindi uso di sostanze, uso di alcol, genitori, come dicevamo prima, maltrattanti oppure gravemente trascuranti. In questo caso parte una segnalazione e quando il Tribunale per i minorenni emette un decreto di solito emette un decreto che ha diversi livelli di compressione della responsabilità parentale. Può essere che preveda che il bambino sia affidato ai servizi sociali perché lo lasci nel suo ambiente familiare dando prescrizioni comportamentali ai genitori, oppure potrebbe anche decretare un affido eterofamiliare indicando sempre una serie di prescrizioni da realizzare con i genitori. In situazioni molto molto gravi, per esempio quando nasce un bambino, se la situazione è gravemente critica la prima opzione è sempre quella del collocamento del bambino in comunità insieme alla madre, quindi una comunità che accoglie la coppia madre-bambino. Questo è il decreto.

    I decreti sono sempre decreti provvisori all’inizio. L’aiuto dei servizi è un aiuto che si esplica principalmente nell’attuazione delle indicazioni da parte del Tribunale. Quindi, può essere che l’intervento comprenda l’essere seguiti dal SerT, il sottoporsi a un percorso di diagnosi di personalità, a un percorso terapeutico, a un parent training, quindi a tutta una serie di attività che comportano la partecipazione dei genitori. Ci sono dei criteri anche per valutare qual è la prognosi di trattabilità dei genitori.

    Per esempio, se un genitore nega di avere avuto problemi comportamentali con il figlio, questo ovviamente è un fattore prognostico negativo, perché se non si riconosce di avere avuto una problematica questo non depone a favore di un inizio di un percorso di cambiamento. Il riconoscimento di un nesso di causalità fra lo stato psicologico o comportamentale del bambino e i propri comportamenti, quindi comprendere che il bambino sta male perché ci sono state determinate carenze, anche questo è un fattore prognosticamente positivo. Una condivisione empatica della sofferenza del figlio anche questo è un indicatore positivo. La disponibilità a sottoporsi a un percorso che promuove un cambiamento anche questo è un fattore positivo.

    Se tutti questi fattori vengono a mancare nel tempo, e dobbiamo considerare non soltanto il tempo giuridico, ma anche il tempo del bambino, questo ovviamente può rappresentare un indicatore di rischio per il prolungamento di un affido anche sine die, il che non vuol dire che nei genitori c’è una volontà abbandonica. Per cui, anche i genitori che hanno difficoltà così rilevanti, laddove non è possibile dichiarare lo stato di adottabilità, è fondamentale che i bambini vedano lo stesso in incontri protetti i genitori, perché se non li vedessero costruirebbero una rappresentazione totalmente idealizzata dei genitori non corrispondente a quello che loro sono realmente. Gli interventi sono interventi di supporto che non sono necessariamente attuati dal servizio sociale o dal servizio di neuropsichiatria infantile, ma in collaborazione e in integrazione anche con il CSM, il servizio di psichiatria adulti, e ad esempio il SerT.

    Il lavoro da questo punto di vista allarga le proprie prospettive di integrazione.

     

    Presidente BOSCHINI. Le veniva chiesto – la aiuto, dottore – eventualmente se le risulta che in Val d’Enza questi casi siano stati seguiti da una psicologa esterna e non dal servizio di neuropsichiatria.

     

    Dott. PASCARELLA. Molti casi sono stati seguiti dal servizio di neuropsichiatria infantile e dagli psicologi di neuropsichiatria infantile. Penso che in Val d’Enza ci sia stata una specificità solo relativa agli abusi sessuali o ai presunti abusi sessuali.

     

    (interruzione)

     

    Dott. PASCARELLA. Nel caso dell’abuso sono intervenuti, da quello che a me risulta ovviamente dalla stampa, gli psicologi del centro Hansel e Gretel. Questo è relativo a quello che dicevo prima, all’idea di internalizzare queste funzioni specialistiche.

     

    Presidente BOSCHINI. Poi veniva chiesto se le risulta che dopo gli episodi della Val d’Enza e le notizie di stampa gli affidi stiano calando in termini di disponibilità dei genitori.

     

    Dott. PASCARELLA. Sì, questo è un rischio. È un rischio molto grosso perché rischiamo, come si dice, di gettare il bambino con l’acqua che non voglio definire sporca, perché se è sporca lo definirà la magistratura. Su questo voglio essere assolutamente molto chiaro, perché ho anche avuto modo di lavorare in passato su temi dell’affido con gli operatori della Val d’Enza. Adesso la situazione dal mio osservatorio è questa. Sicuramente c’è molta, non voglio definirla paura, però c’è molta attenzione. Il rischio è che bambini che avrebbero la necessità di essere allontanati continuino a vivere in una situazione di pregiudizio. Questo rischio c’è. Il rischio che ci sia una diminuzione della disponibilità delle famiglie affidatarie mi verrebbe da dire che c’è, ma qui ve lo può dire meglio chi quest’anno lavora nei servizi, quindi chi mi seguirà oggi.

     

    Presidente BOSCHINI.  Da ultimo le veniva chiesto se anche la Val d’Enza, per quanto lei ne sa, aveva l’UVM come a Reggio, quindi come erano organizzate le UVM a Reggio e in Val d’Enza. 

     

    Dott. PASCARELLA. L’UVM, l’unità di valutazione, è un’unità che comprende gli operatori dei servizi di neuropsichiatria infantile e servizi sociali, ma che non aveva e non ha un compito di supervisione sugli affidi, ma ha un compito relativo al peso delle spese che possono riguardare un minore, quanto è di competenza del servizio sanitario e quanto è di competenza del servizio sociale.

    A me risulta che le UVM lavorassero in questo senso, ma anche a Reggio non c’era un organismo che presiedeva alle decisioni sugli affidi, nel senso che a Reggio, per esempio, la formazione per le famiglie e la valutazione per le famiglie nel mio caso ho avuto la fortuna di farla io e questo mi ha consentito, ovviamente, di approfondire una competenza specialistica sul tema dell’affido e dell’adozione.

    Il lavoro del gruppo di abbinamento, pur essendo un lavoro che era finalizzato alla connessione fra risorse e bisogni, era però anche un lavoro di rilettura delle scelte che erano state fatte da un’équipe e quindi il rapporto era assolutamente un rapporto di consulenza non solo limitata, ma un po’ di condivisione di una rilettura, pur naturalmente salvaguardando l’autonomia decisionale dell’équipe integrata afferente ai poli. 

     

    Presidente BOSCHINI. Benissimo. Io non ho altri colleghi iscritti. Per cui, se non ci sono ulteriori domande, ringrazio davvero sentitamente il dottor Carmine Pascarella per la sua presenza qui, per l’incontro che ci ha concesso, per le tante informazioni che ci ha permesso di acquisire.

    Passerei, quindi, al successivo punto all’ordine del giorno, che è l’audizione della dottoressa Daniela Scrittore che adesso facciamo accomodare.

     

    Dott. PASCARELLA. Grazie e auguri di buon lavoro.

     

    Presidente BOSCHINI. Grazie mille, dottor Pascarella. Buona giornata e buon lavoro anche a lei.

    Mentre attendiamo l’ingresso della dottoressa Scrittore, volevo darvi contezza del fatto che è pervenuta una comunicazione da parte della presidente della Commissione Parità e diritti delle persone in merito alla raccomandazione che il dottor Fadiga aveva detto di aver inviato a vari soggetti, fra cui anche alla presidente della Commissione Parità. Volevo darvi notizia, mentre per l’invio della comunicazione più complessiva stiamo aspettando anche qui un parere di carattere formale, perché contiene alcune documentazioni che vanno verificate dal punto di vista giuridico. Volevo soltanto dirvi che è stato riscontrato che la comunicazione verso la Commissione Parità è avvenuta con una mail sbagliata. C’è la documentazione allegata che testimonia come mentre a tutta una serie di soggetti è stata inviata correttamente, la segreteria della Commissione Parità non l’ha potuta ricevere perché è stato messo un punto in più nell’indirizzo della mail. Questo ci è stato comunicato dalla Commissione Pari Opportunità e credo che fosse giusto richiamarlo per tutti. 

     

    -     Audizione della Dott.ssa Daniela Scrittore (PO Comune di Reggio Emilia, componente del Tavolo regionale su "Linee di indirizzo regionali per l'accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamento/abuso")

     

    -     Eventuale dibattito e discussione

     

    Presidente BOSCHINI. Diamo il benvenuto alla dottoressa Scrittore. Le ricordiamo che siamo in streaming per cui tutti i riferimenti eventuali a persone minori o indagate, eccetera, devono essere contenuti nelle attenzioni che le norme sulla diffusione delle informazioni ci richiedono.

    La dottoressa Scrittore è PO presso il Comune di Reggio Emilia ed è componente del tavolo regionale sulle linee di indirizzo regionali in materia di maltrattamento e abuso. L’abbiamo invitata sul seguente tema: attuazione delle linee di indirizzo regionali nell’ambito delle competenze comunali e regionali, analisi e prospettive. Quindi, il tema di come, nella sua esperienza, sta procedendo l’attuazione delle linee di indirizzo. Naturalmente, operando presso il territorio, è in grado anche di darci questo punto di vista territoriale sulle linee di indirizzo.

    Le chiedo se preferisce iniziare da una sua breve introduzione su questo tema o se preferisce iniziare, invece, dalle domande dei commissari. Se vuole 5-10 minuti per un’introduzione, volentieri. Preferisce così? Prego. Le do la parola. Dopo raccoglieremo delle domande. In genere facciamo un paio di domande e relative risposte finché non siamo soddisfatti del risultato.

    Grazie mille per la sua presenza. Le do la parola, dottoressa.

     

    Dott.ssa Daniela SCRITTORE, PO Comune di Reggio Emilia, componente del Tavolo regionale su “Linee di indirizzo regionali per l’accoglienza e la cura di bambini e adolescenti vittime di maltrattamento/abuso”. Grazie. Buonasera a tutti.

    Io ho chiesto di fare una breve introduzione solo per collocare l’argomento. Collocare l’argomento maltrattamento e abuso nella realizzazione di un lavoro territoriale, quale è il lavoro che si attua all’interno dei Comuni, è opera complessa perché deve tenere conto di diversi piani, di diversi interlocutori, di diverse organizzazioni, di sistemi imperfetti, necessariamente, di diverse istanze e di risorse definite, che non è oggi tema così banale e scontato.

    Tengo a dire che è dentro una complessità che noi andiamo a muoverci, dentro una complessità dove il tema si snoda dalla prevenzione fino alla protezione. Attuare linee guida di maltrattamento e abuso significa prima di tutto lavorare perché il fenomeno non solo emerga, ma nel corso degli anni possa anche cominciare a trovare una curva diversa, a trovare ‒ se possibile ‒ anche una curva discendente perché abbiamo imparato a capire come si fa e quando si fa, perché abbiamo imparato a intervenire prima, perché abbiamo i mezzi e gli strumenti per intervenire prima, perché possiamo aiutare i bambini fino a quando sono nella pancia delle loro mamme e non solo quando vengono al mondo. Quindi, parlare di linee guida su maltrattamento e abuso significa anche tenere dentro tutto il Piano della prevenzione. Tenere dentro il Piano della prevenzione nei territori oggi è molto difficile, perché significa aprire interlocuzioni, investimenti, riferimenti trasversali, che nascono prima di tutto attorno alle comunità dove le famiglie vivono, che intercettano i quartieri, i territori, i luoghi in cui si vive e in cui si cresce. Significa, quindi, fare un grande lavoro di corresponsabilità perché i bambini siano davvero figli della nostra comunità e non solo figli dei genitori.

    Parlare di maltrattamento e abuso all’interno di servizi comunali e di servizi territoriali significa interpellare molto queste questioni per non arrivare sempre e solo quando le questioni emergono. Se le questioni emergono ‒ perché non sempre emergono, e questo lo sappiamo ‒ e quando le questioni emergono dobbiamo necessariamente sempre concentrare tutti gli sforzi. Mi sento di dire, come rappresentante di un servizio sociale che lavora nel territorio, che quando arriviamo lì è tardi perché i bambini stanno già male. Non significa che abbiamo fallito, perché se ci arriviamo c’è tutto un lavoro da fare per aiutare, per sostenere, per condividere, per far cambiare, per far intraprendere anche evoluzioni nel percorso di vita dei bambini che siano sicuramente più positivi, dei bambini e delle loro famiglie, ma dobbiamo tenere dentro i due estremi della prevenzione e della protezione se vogliamo far dialogare utilmente le linee guida nella direzione che sta tra la Regione e il Comune, quindi tra chi ha una visione più dall’alto delle competenze altre rispetto al Comune e chi, invece, è molto in prossimità con i bambini e le loro famiglie. Credo che su questo abbiamo ancora molto da fare.

    Fare oggi il punto significa dirci che dobbiamo sicuramente migliorare i nostri sistemi di rilevazione, i nostri sistemi di cura, ma anche i nostri accompagnamenti precoci ai genitori e alle famiglie perché i bambini possano avere davvero più chance. In questo cito accanto, ma non in alternativa alle linee guida e maltrattamento e abuso le linee guida sulla vulnerabilità, che sono un degno continuum di questi contenuti, perché trattano argomenti prossimi e in dialogo tra di loro. Attuare le linee guida di indirizzo nei territori significa imparare a lavorare molto bene tra organizzazioni e professioni diverse, significa mettere in campo livelli di integrazione molto sofisticati, significa trovare sintesi tra appartenenze professionali e organizzative diverse, significa anche dare gli stessi significati alle cose che si vedono, e questo non è sempre così scontato, quindi richiede esperienza, competenza e perseveranza, dico io. Bisogna perseverare per costruire buona integrazione. Significa anche trovare soluzioni che possano, all’interno di servizi che vedono un turnover di personale molto elevato, garantire possibilmente standard di conoscenza dei contenuti sempre sufficienti. Significa anche continuare a interrogarsi rispetto a che cosa serve affinché il superiore interesse del minore sia effettivamente realmente declinato. Dire che un bambino ha diritto all’accesso alle cure, oggi, che cosa vuol dire? Vuol dire che ha diritto non solo ad avere un pediatra, ma ad avere delle cure ospedaliere di secondo livello, se c’è bisogno, e ad avere anche delle cure psicoterapeutiche, se c’è bisogno, e averle possibilmente all’interno dei nostri servizi, quindi dei servizi pubblici e, quando non è possibile, capire come i servizi pubblici possono fare per riuscire a garantirle. Non sono di serie B queste cure. Vuol dire avere la possibilità di averle nel momento in cui ce n’è bisogno, non quando si può. Vuol dire avere dei protocolli di garanzia, delle procedure di garanzia anche tra servizi sanitari.

    Se penso alla nostra esperienza ‒ per portarvi un esempio ‒ abbiamo lavorato un anno e mezzo per riuscire ad avere una procedura che mettesse insieme gli ospedali della provincia quando ancora non erano aziende unificate. Abbiamo iniziato a lavorare prima i servizi sociali territoriali per avere un accesso sufficientemente garantito ai pronto soccorso territoriali dei diversi ospedali della provincia di Reggio Emilia a pari condizioni per i bambini; avere un hub and spoke che potesse garantire un secondo livello di accesso ai pronto soccorsi per i bambini. Tutto questo ha richiesto un grande lavoro di mediazione e di attenzione. All’interno del pronto soccorso spesso viene prima l’adulto del bambino. Spesso il bambino che arriva perché si presume che sia stato vittima di maltrattamento e di abuso non ha sempre la priorità. Quindi, il lavoro è andato nella direzione di costruire attenzione e priorità. Se non ci fossero state le linee guida, probabilmente avremmo fatto molta più fatica e forse non ci saremmo riusciti. Lo dico molto onestamente.

    In questo caso, sono state utilissime. Come sono state utilissime nel rinforzare un lavoro che già con fatica avevamo cercato di realizzare, ossia quello dell’integrazione interprofessionale nei gruppi di lavoro. Avere ore di psicologo all’interno dei servizi sociali è un punto di arrivo importante. Le linee guida l’hanno rinforzato, hanno dichiarato che è necessario. Avere le compartecipazioni economiche da parte dell’azienda USL su alcune tipologie di intervento è stato un altro punto di arrivo. Perché devono sempre i Comuni farsi carico di questi interventi?

     

    (interruzione)

     

    Dott.ssa SCRITTORE. La questione non è solo sociale. La questione è sociosanitaria.

    È ancora difficile il dialogo con la magistratura. È un dialogo ancora in salita, che non ci vede ancora convergere, che non ha ancora avuto la possibilità, ad esempio, di creare percorsi formativi condivisi. Segnalo che sono spesso i servizi sociali a farsi promotori, a sollecitare anche in questo caso. Nella mia carriera ‒ come vedete ho i capelli bianchi, quindi ne ho un po’ alle spalle ‒ non mi è capitato che la magistratura chiedesse di fare, ad esempio, formazioni condivise. Lo riporto perché significa non avere disponibilità a mettersi in gioco, se non quando si è chiamati a farlo. Ovviamente siamo tutti molto presi, siamo tutti sotto organico, siamo tutti tirati da tante parti, abbiamo tutti emergenze. Questo, però, non significa che non ci debba essere reciprocità in questo ambito. I Comuni è vero che per legge hanno la responsabilità dei minori residenti, ma il gioco funziona se c’è la squadra. Questo lo sappiamo tutti. Se non c’è la squadra il gioco non funziona e si rischia di perdere. Ma non perdiamo noi. Perdono i bambini, in tutto questo.

    Un altro passaggio che volevo fare rispetto all’attuazione delle linee di indirizzo riguarda una difficoltà. Non so se questo ve l’hanno riportato, perché francamente non ho neanche avuto il tempo di ascoltare le audizioni precedenti. Quindi, posso dire cose che sono già state dette. C’è una frammentazione all’interno dei percorsi giudiziari. Se è già stato detto, abbiate pazienza, lo ridico. Lo ridico dal punto di vista di chi ‒ lo ripeto ancora una volta ‒ lavora all’interno di servizi comunali. Questa frammentazione costringe a delle ricomposizioni faticosissime; costringe, a volte, a ricominciare; costringe anche a riposizionarci rispetto ai diversi riferimenti giudiziari. Un conto è rapportarsi con il tribunale ordinario; un conto è rapportarsi con il tribunale per i minorenni; un altro conto è rapportarsi con le procure. Quindi, chiede costantemente posizionamenti diversi da parte degli operatori dei servizi. Sicuramente questa frammentazione rischia di lasciare aperti dei varchi. Se i sistemi giudiziari non dialogano tra di loro ci sono varchi enormi e non sempre i servizi sociali comunali riescono a entrare, in termini di ricomposizione, anche perché non sempre ‒ questo penso lo sappiate ‒ sono messi al corrente di quello che succede, soprattutto se ci sono delle indagini in corso. Non si è mai messi al corrente di quello che succede.

    L’altra questione, dove l’attuazione delle linee di indirizzo ha costretto e costringe tuttora a interrogarsi, è che cosa significa “proteggere”. La parola “protezione” ha dentro molto. “Proteggere” può essere inteso o realizzato attraverso gradazioni diverse. Si può proteggere attivando un intervento domiciliare, perché un educatore entra nella dinamica della relazione tra genitori e figli e il contesto intorno, ma se questo non è sufficiente, se non c’è una disponibilità a cambiare, se non c’è un interrogarsi rispetto a come stanno i propri figli, se non c’è un riconoscere che la propria azione come genitore, il proprio comportamento come genitore crea dolore e danno, allora bisogna arrivare a separare, anche se si fa nei casi, ovviamente, più estremi e con grande, grande dolore anche da parte delle persone che lavorano. Ci sono situazioni che tengono svegli la notte per le responsabilità che ci sono. Non si fa mai a cuor leggero tutto questo. Si fa con un grande, grande appesantimento, un grande senso di responsabilità, una grande percezione di responsabilità rispetto a quello che viene fatto.

    Ci tengo anche a dire che in questi ultimi casi, quando si arriva a separare genitori e figli, la decisione non è in capo ai servizi. Penso che sappiate anche questo, che l’abbiate sentito. La decisione è in capo alla magistratura. È una decisione in capo alla magistratura che a volte arriva inaspettata. Non sempre le attese dei servizi coincidono con le decisioni della magistratura. Ci sono decisioni della magistratura che disattendono le attese dei servizi. Allora si tratta di capire come riuscire a ottemperare a un provvedimento, anche se ci si aspettava qualcosa di diverso, magari qualcosa di meno coercitivo.

    Pensiamo che la decisione della magistratura comunque meriti rispetto e, siccome è un organo altro e superiore, possa aver visto o percepito qualcosa che noi in quel momento forse non avevamo così approfonditamente chiaro o abbia deciso che era il momento semplicemente di dire “basta”. C’è un limite oltre il quale non è possibile lasciare i bambini in situazioni di pericolo.

    Attuare le linee di indirizzo nei territori significa, oggi, anche poter iniziare a parlare di contenuti scomodi. Parlare di maltrattamento e parlare di abuso significa parlare di qualcosa ancora di scomodo. Io lo vedo dentro le scuole quando parlo con i dirigenti e con gli insegnanti. Sono scomodi questi argomenti. Nessuno ha piacere di parlarne. Danno fastidio. Non se ne ha voglia. È faticoso. Di questo dobbiamo esserne consapevoli, perché ci occupiamo di contenuti che danno fastidio, che tendono ad essere allontanati, che tendono ad essere minimizzati, che tendono ad essere polarizzati, che tendono ad essere misconosciuti. Questo richiede sempre una grande centratura e anche una conoscenza del fenomeno, una conoscenza dei contenuti e una conoscenza delle possibilità.

    Un’ultima cosa. In questi anni sono molto cambiate le dinamiche sociali e familiari. Sono cambiate le famiglie. Sono cambiati i contesti. Sono cambiate le condizioni. La famiglia con la mamma, il papà e i figli è qualcosa che tutti abbiamo nella nostra mente, ma nel lavoro noi la incontriamo sempre meno. Incontriamo famiglie separate, mamme da sole, famiglie ricomposte, single che fanno figli, genitori che si lasciano e poi si ritrovano, compagni che si mettono insieme e via dicendo. Questa è anche la realtà dei bambini, ovviamente, che passano attraverso queste situazioni, come si è molto fragilizzato il ruolo degli adulti, degli adulti come genitori, degli adulti come educatori, degli adulti dentro l’ambito della scuola con cui mi capita di confrontarmi abbastanza spesso. La fragilizzazione dei ruoli degli adulti espone di più i bambini, perché siamo meno capaci di tenuta, siamo meno capaci di tenuta come singoli e siamo meno capaci di tenuta anche come comunità. Tutto questo unito anche a delle dinamiche territoriali che a volte si presentano, i dati dei cambiamenti della popolazione, i dati della povertà. Lascia aperti dei varchi in cui la negligenza, che è una forma di maltrattamento, non c’è solo il maltrattamento fisico o l’abuso sessuale, la negligenza, ad esempio, è uno dei tratti delle caratteristiche più insidiose che può insinuarsi in queste situazioni.

    Parlare di maltrattamento e abuso, di linee di indirizzo, significa parlare anche di negligenza e significa anche avere in mente che bambini esposti a queste situazioni sono bambini più fragili, sono bambini più a rischio, sono bambini che consegniamo a un futuro più segnati, e questa è una nostra responsabilità.

     

    Presidente BOSCHINI. La ringrazierei per questa introduzione, dottoressa, perché sennò sforiamo un attimo nei tempi, dobbiamo essere un po’ attenti.

    Do la parola al collega Tagliaferri per la prima domanda.

     

    Consigliere TAGLIAFERRI. Grazie, presidente. Buonasera, dottoressa. Non voglio entrare nel merito del caso della bambina prelevata presso il proprio domicilio a (Omissis…), di cui tutti abbiamo visto e letto negli ultimi (Omissis…) mesi, ma approfitto di quel video per avanzare un paio di considerazioni e formulare il mio quesito. Quello che sicuramente stupisce, sul quale voglio per l’appunto soffermarmi, sono le modalità dell’azione. Dai video ripresi e da alcuni programmi televisivi appaiono undici diverse persone che partecipano all’operazione che nelle modalità sembra rasentare quelle per l’arresto di un pericoloso latitante. Vorrei capire bene: questa è la procedura che normalmente si segue in questi casi? Le linee regionali prevedono l’uso di tali metodi? Non so lei, ma se una cosa analoga fosse successa in casa mia, proprio per la dinamica che ha avuto, qualcuno avrebbe rischiato seriamente di farsi del male perché avrei reagito, per difendere la mia famiglia, non capendo cosa stesse succedendo. Chi, quindi, decide la realizzazione di operazioni come questa? Chi ne valuta i rischi? Chi se ne assume la responsabilità?

    Io sono stato sindaco e francamente i miei servizi sociali non hanno mai operato in questa maniera. Non ritiene che se l’assistente sociale si fosse presentata accompagnata da due agenti di pubblica sicurezza, che come tali si fossero qualificati, il risultato sarebbe stato lo stesso, ma tutto sarebbe proceduto con più ordine senza peraltro mettere a rischio l’incolumità di alcuni e prima di tutto quella del minore? A tal fine le ricordo che ci sono anche agenti di polizia locale in possesso della qualifica di agente di pubblica sicurezza. Perché non ci si è avvalsi di loro? Perché non sono stati gli agenti a farsi aprire qualificandosi senza sotterfugi, facendo poi entrare l’assistente sociale solo per eseguire il prelievo dopo aver spiegato ai familiari, in tutta tranquillità, che la minore doveva essere momentaneamente allontanata?

    Tra l’altro l’aggiungere il quando e il come l’avrebbero potuta rivedere ed il consiglio di rivolgersi ad un legale di propria fiducia per l’eventuale opposizione al provvedimento ritengo sarebbero stati elementi minimi che potrebbero aver contribuito a tranquillizzare il clima piuttosto del prendo e scappo.

    Altro dubbio sorge poi sui mezzi utilizzati per l’operazione. Se non sbaglio, mi è sembrato di capire da un video visto su Facebook, quindi non so se e quanto attendibile, che sia stata utilizzata un’auto intestata al marito di un’assistente sociale. Non voglio entrare in polemiche relative a dove i minori venissero locati o alle fiaccolate e alle reazioni varie. Quello su cui voglio però soffermarmi è chiedere il perché si sia utilizzato il mezzo di un privato per una simile operazione. I mezzi di servizio esistono proprio per evitare che il riconoscimento di targhe porti al coinvolgimento di altri a parte gli operatori. Questo, se fosse confermato, lo riterrei un elemento di estrema gravità a carico di chi quel prelevamento ha disposto ed organizzato.

    Chiedevo anche: com’è la procedura dopo aver tolto il bambino? Come avviene la decisione se indirizzarlo su comunità o affido familiare e nel caso come avviene la scelta della famiglia? I genitori possono vederlo e quando? Dopo quanto tempo e in quali condizioni? Incontro protetto, con assistenti o con CTU? Ne ho avuto contezza perché ne ho sentito parlare, ovviamente, quando facevo il sindaco, però per questo caso ho bisogno di più specifiche. Nelle procedure, se l’allontanamento è disposto per ragioni economiche, sono previsti aiuti e sostegni alla famiglia prima di arrivare al prelievo, come dichiarato alla tv locale dall’assessore del Comune di Reggio la scorsa settimana? In quali casi si saltano eventuali aiuti o sostegni e si procede direttamente a togliere il bambino? Immagino siano casi di grave rischio, ma questi casi di grave rischio sono in qualche maniera documentati? Con cosa? Relazioni degli assistenti sociali, per esempio?

    Quali garanzie attua il Comune per tutelarsi nei confronti degli assistenti sociali? Come fa il Comune ad essere sicuro che quel dato intervento d’urgenza sia fondato? Chi sono i soggetti al corrente che venga attuata un’operazione di questo tipo?

    Infine, ho notato che era tra i relatori del convegno del 10-11 ottobre 2018 a Bibbiano presso il centro “La Cura”. Nella locandina si parla di - cito – “i risultati del progetto sperimentale “La Cura” e via dicendo. Protocollo fuori dall’ordinario in tema di violenza sui minori”.

    Visto che ha partecipato come relatore, lei mi sa spiegare in cosa consiste questa sperimentalità o sperimentazione? Grazie.

     

    Presidente BOSCHINI.  Sono molte domande. Poi magari la aiuto. Ascoltiamo anche la domanda della collega Prodi e poi rispondiamo.

     

    Consigliera PRODI. Era solo per puntualizzare che avremmo veramente bisogno di fare un piccolo dibattito a valle di questa nostra seduta, perché forse il collega Tagliaferri non sa che questa è una audizione, non è un interrogatorio. Ovviamente, questa Commissione non prende come elementi di informazione Facebook o video strumentali di sappiamo quale mezzo di comunicazione. Lo ricordo giusto per chi magari non ci ha seguito le volte scorse. Chiedo che ci sia un dibattito un po’ più serio a valle di questa seduta.

     

    Presidente BOSCHINI. Va bene. Adesso diamo la possibilità alla dottoressa di rispondere. Semmai lo facciamo dopo nel dibattito. Poi comunque ci siamo capiti. Prego, se vuole rispondere. Poi, se ha qualche esigenza la aiuto.

     

    Dott.ssa SCRITTORE. Parto dalla disposizione. La disposizione di allontanamento la dà il tribunale. I servizi non auto dispongono, non hanno questa facoltà. Faccio questa precisazione perché lei ha usato questo termine, e mi sembra importante ricondurre la responsabilità a chi ce l’ha. È il Tribunale per i minorenni che dispone un allontanamento, non è il servizio sociale che dispone un allontanamento. Il servizio sociale lo esegue. Se nel decreto, nella disposizione c’è scritto “con l’ausilio della forza pubblica” lo fa con l’ausilio della forza pubblica. Va da sé, mi sento di dire, che nei casi in cui è necessario arrivare a una separazione tra genitori e figli si cerca il più possibile di creare le migliori condizioni perché la separazione non sia una separazione troppo traumatica. Uso il termine “troppo” perché la separazione di per sé comunque è sempre un atto che provoca un’azione che provoca dolore.

    Le migliori condizioni possibili stanno dalla parte dei servizi e stanno dalla parte dei genitori, cioè quanto i genitori riescono, possono, vogliono entrare in relazione con i servizi affinché possano mettersi in campo tutte quelle condizioni perché non si arrivi, uno, ad utilizzare le forze dell’ordine, due, ad utilizzarla in modo coercitivo. Questi sono passaggi che vengono sempre fatti, che i media non documentano. Non commento il perché, però i media non li documentano. Generalmente prima si fa tutto il possibile sempre, sempre, lo ribadisco, per fare in modo che laddove è necessario separare, la separazione sia il più possibile una condizione in cui non c’è bisogno di usare delle azioni forzate. Se il minore è a casa, se i genitori non vogliono o non possono entrare in relazioni diverse con i servizi e c’è la necessità di eseguire un provvedimento da cui non ci si può sottrarre, perché i servizi sociali non possono decidere di non eseguire un provvedimento del tribunale, allora le azioni possono essere non dico di questo tipo, ma anche più forti, più invasive, sicuramente più invasive.

    Tutti i tentativi – questo posso dirlo con molta serenità – vengono fatti, vengono messi in campo per non arrivare a delle azioni invasive, perché le azioni invasive non servono a nessuno. A chi servono? Ai servizi per far vedere cosa? Alla polizia per far vedere cosa? Non servono. Come si vede nella misura in cui vengono ribaltate senza sapere che cosa c’è dietro paradossalmente è tutta pubblicità negativa per i servizi. Nell’interesse del bambino, se viene a fronte di un provvedimento che i genitori altrettanto, anche se in modo sofferente, doloroso, a volte inconcepibile devono accettare, se i genitori riescono a fare questo passaggio di comprensione, perché poi una parte sta anche a loro, è più semplice. Le forze dell’ordine si rendono necessarie quando questa disponibilità viene reiteratamente meno, quando non c’è nessuna possibilità da parte dei servizi di accedere alla parte adulta che si occupa di quel bambino. Non sempre i genitori sono disponibili a relazionarsi con i servizi, per quanto si cerchino di fare diversi tentativi. Non sempre colgono anche le ragioni del malessere dei loro figli. Non dico che quella sia una scena positiva, però a volte è necessario arrivare, ripeto, per ottemperare a un provvedimento.

    Se un giudice emette un provvedimento di allontanamento di un bambino che è a casa, non esce, non frequenta l’asilo, non va dal pediatra e quindi non c’è la possibilità anche di costruire spazi, momenti e condizioni alternative, credo che debba mettere in conto che ci possono essere situazioni non piacevoli per nessuno. Ripeto, non piacevoli per nessuno.

    Gli allontanamenti in genere vengono fatti creando le migliori condizioni possibili, cercando ripetutamente il più possibile di spiegare perché bisogna farli, cercando il più possibile di spiegare che possono essere eventualmente anche nelle condizioni che poi dopo possono essere rivisti. I provvedimenti è vero che possono essere rivisti. Questa è una situazione che, ad esempio, dimostra che i provvedimenti possono essere rivisti. Quindi, non si dice qualcosa di non vero. Poi, dice qualcosa che ha valore per un periodo, che può avere in alcune situazioni, in alcune condizioni valore per un periodo. Poi, magari, il giudice rivede degli elementi che può aver letto o interpretato diversamente in precedenza e quindi rivaluta, rivede un suo provvedimento. Lo può modificare. Sono eccezionali queste situazioni.

    Lei mi ha chiesto se succedono sempre così. Mi ha detto che da sindaco ha visto che non succedono così, quindi lei sa che questa non è la norma. Sa che un allontanamento fatto in questo modo ha dietro una storia di ripetuti tentativi per evitare di trovarci tutti in situazioni così difficili, così complicate, così davvero molto spiacevoli per tutti.

    C’è una cogenza, però, di un provvedimento. La cogenza del provvedimento, se resta ferma, non lascia spazio ad alternative: o si applica o non si applica. Ci si prende a volte un tempo prima di applicarlo il provvedimento. Non si è, se non ci sono le condizioni, sempre così puntuali. Oggi mi arriva, io allontano, perché soprattutto in situazioni dove c’è una difficile convergenza, c’è una rappresentazione molto distante, c’è un non accesso dei genitori ai servizi magari già da un po’ anche se i tentativi sono ripetuti, ci si prende un tempo e ci si prende un tempo proprio perché si vuole evitare tutto questo. Poi, però, a un certo punto il giudice dice “lo dovete fare”. Telefona e dice “Non ci sono alternative, lo dovete fare” e quindi si fa, cercando, ripeto, in modo più utile possibile.

    Dico anche due parole sul fatto di come si sono presentati a casa. Quando ci presentiamo lo facciamo in modo riconoscibile come servizi sociali, con i cartellini di riferimento. In genere gli operatori sono conosciuti dalla famiglia, perché in genere è da un po’ che ci si conosce, salvo situazioni particolari in cui bisogna fare degli allontanamenti perché non ci sono alternative in quel momento lì e la situazione di pericolo effettivamente è molto cogente. Se non si conosce la situazione, allora va da sé che ci si conosca in quel momento. Diversamente, le famiglie sono conosciute perché ci sono ripetuti tentativi di lavoro, di costruzione alternativa, di proposte e via dicendo. Non si arriva sconosciuti davanti alle porte. Anche se non si arriva sconosciuti, si arriva con i cartellini di identificazione.

    Le forze di polizia agiscono diversamente. Le forze di polizia, per quanto si possa e si dica a loro molto spesso che per noi è importante non barare di fronte alle famiglie e quindi se c’è un provvedimento c’è un provvedimento, se c’è una motivazione c’è una motivazione, diamo un nome alle cose, non è sempre detto che loro agiscano come agiamo noi. Hanno e possono avere, questo lo abbiamo appurato, codici di comportamento diversi nell’approccio al domicilio delle persone, diversamente da noi, e possono decidere di attuarli nella situazione. Quindi, il fatto, come lei dice, “non capisco perché” è dovuto ‒ questo in linea teorica, ma anche in linea pratica ‒ al fatto che facciamo riferimento a modalità di rapportarci nelle situazioni di presenza a domicilio diverse. I servizi sociali, come i servizi educativi, come i servizi sanitari si presentano sempre in modo esplicito, identificandosi con un cartellino di riconoscimento, perché questo è dovuto, ovviamente. Se io esco in nome e per conto del servizio sociale del Comune di Reggio Emilia devo essere identificabile.

     

    Presidente BOSCHINI. Credo che la risposta su questa parte sia sufficiente, dottoressa. Se voleva accennare, invece, all’altra domanda, quella che riguardava la sua partecipazione al convegno del 2018 a Bibbiano e sulla natura sperimentale, per quanto lei ne può sapere, del centro “La Cura”.

     

    Dott.ssa SCRITTORE. La mia partecipazione era su un argomento che aveva più a che fare con la dimensione dell’attuazione delle linee guida. Avevamo fatto un po’ il punto con Alessandro Volta per la parte sanitaria, a che punto era l’attuazione delle linee guida sul territorio.

    Le sperimentazioni hanno un format ‒ chiamiamolo così ‒ che tiene conto di alcuni criteri. La sperimentazione che aveva messo in piedi “La Cura” era la possibilità di avere una supervisione, un accesso, anche, a determinati percorsi di cura più diretti e agevolati, forse, da parte delle famiglie dei bambini. Non siamo, però, entrati molto nel merito di questo. Sicuramente c’era un luogo che vedeva la convergenza di diversi professionisti, di équipe di lavoro, ed era un luogo dedicato a questo. Questo non c’era in nessun altro territorio. Nessun altro territorio ha un luogo anche fisico dedicato a incontri, a sviluppare tematiche, a fare équipe e ad avere la possibilità anche di, eventualmente, consentire un accesso ai bambini e alle famiglie per poter essere incontrati dai diversi professionisti. Il luogo fisico, quindi, sicuramente faceva la sua differenza, un luogo fisico ‒ io ci sono stata perché volevo vederlo fisicamente ‒ esteticamente allestito con una certa figura. La sperimentazione, di fatto, era un luogo.

     

    Presidente BOSCHINI. Collega Facci, prego.

     

    Consigliere Michele FACCI. Anch’io ringrazio la dottoressa.

    In realtà, vorrei fare altre domande. Diciamo che le risposte che ha dato al collega mi hanno lasciato un po’ perplesso. Dottoressa, in riferimento allo specifico caso citato dal collega, quello che abbiamo visto trasmesso un po’ dappertutto e descritto un po’ da tutti i media, lei correttamente dice: “Noi abbiamo eseguito un provvedimento dell’Autorità giudiziaria”. E sono d’accordo. Non credo, però, che l’Autorità giudiziaria vi abbia prescritto quelle modalità. Lei, sostanzialmente, ci dice ‒ mi corregga se sbaglio ‒ che è stata la vostra struttura a scegliere quali modalità adottare per eseguire quel provvedimento. Credo che questo sia abbastanza significativo dell’ampia discrezionalità che i servizi sociali hanno nell’eseguire provvedimenti, che possono anche essere adottati con modalità ‒ mi passi il termine ‒ abbastanza allucinanti. Mi riferisco a quelle che sono state viste e descritte.

    Lei, poi, converrà con me che tutte le volte che si ricorre all’articolo 403 l’Autorità giudiziaria arriva dopo. Qui addirittura abbiamo una decisione che viene assunta, sostanzialmente, secondo le modalità che la norma prevede, direttamente dai soggetti che possono adottarla, quindi non necessariamente sempre i servizi sociali. Possono anche essere altri soggetti. Però, in genere, sono i servizi sociali.

    Faccio questo tipo di riflessione, che poi diventa una domanda. I dati di Reggio Emilia sono abbastanza allarmanti circa il ricorso agli affidi rispetto alla media regionale. La domanda che pongo è per quale motivo questi dati non sono stati tenuti in considerazione come potenziale campanello d’allarme per una situazione che, come abbiamo visto, è sfociata anche in indagini. Nelle carte giudiziarie di Bibbiano la Procura dice che c’è stato un numero di ricorsi alla procedura di cui all’articolo 403 di fatto elevato, un crescendo che ha allarmato, quindi segnalazioni di abuso collegate a provvedimenti ex articolo 430. Da lì c’è stata l’indagine. La domanda è, visto che fondamentalmente queste statistiche le conoscete bene, se secondo voi questi dati erano normali, quindi perché questi dati non vi hanno fin da subito fatto pensare che, magari, ci poteva essere un abuso nell’utilizzo dello strumento. Tra l’altro, su un totale, per il 2017, di quasi 10 milioni di euro di spesa sociale per gli affidi, per la provincia di Reggio Emilia parliamo di quasi il 25 per cento. 2.441.000 su un totale di 9.857.000. Anche questi sono dati importanti. Come mai voi, che avete di fatto questo tipo di controllo, dovreste avere questo tipo di controllo, avete ritenuto, fondamentalmente, che non vi fossero particolari approfondimenti da fare?

    Altra domanda. A fronte di una spesa ‒ prendo a riferimento sempre il 2017 ‒ di 72.191.000 euro per spesa sociale sanitaria tra affido e spese di comunità, quindi affidi e comunità familiare, per un totale di 2.970 minori, fanno una spesa cadauno di 24.300 all’anno, circa 2.000 euro al mese per minore. 72.191.000, 2.970 minori, 24.307 la spesa pro capite: diviso per dodici, circa 2.000 euro. Non avete mai pensato che modalità diverse di sostegno ai minori e, quindi, alle famiglie di riferimento potessero conciliare le esigenze di garanzia e di tutela del minore con anche, forse, esigenze di evitare il ricorso a forme naturalmente estreme e, allo stesso tempo, anche un potenziale risparmio per il servizio sanitario?

    L’ultima domanda riguarda l’aspetto che ha sollevato il collega, al quale lei ha risposto in maniera molto evasiva. Il centro “La Cura” di Bibbiano era stato declamato come un centro sperimentale. La sperimentalità non può essere nel luogo, abbia pazienza. Non ci prendiamo in giro. Vi chiedo scusa. Non ci prendiamo in giro. Qui nessuno a questa domanda risponde su cosa comportasse il carattere sperimentale, ma in tutti i documenti, le brochure di invito, la documentazione che troviamo si fa riferimento a quella che doveva essere un’eccellenza e, soprattutto, a questo carattere sperimentale. Io maliziosamente penso che la sperimentalità sia nel tipo di cure che venivano praticate, perché entra una realtà come Hansel e Gretel che, effettivamente, aveva una sua originalità nelle modalità di praticare queste cure. Però non vogliamo essere noi a trarre le conclusioni. Chiedo a lei perché nessuno qua, a fronte di quello che è successo, oggi si prende più... Prima tutti a osannare, a incensare (le passerelle, che bello, evviva, eccetera). Oggi sembra quasi che nessuno si voglia prendere le responsabilità di avere in qualche modo portato questo centro sul palmo della mano. Diteci voi, che fondamentalmente eravate i servizi di riferimento, cosa intendevate per “sperimentalità”. Abbia pazienza, dottoressa. Fa torto alla nostra intelligenza prima ancora che alla sua rispondere che era una questione di carattere estetico.

     

    Presidente BOSCHINI. Prima di dare la parola alla dottoressa, il collega Tagliaferri si è prenotato un’altra volta. Prego.

     

    Consigliere TAGLIAFERRI. Grazie.

    Vi pongo la domanda che ho rivolto al collega presente prima. Più di un mese fa abbiamo presentato un accesso agli atti per chiedere alle AUSL di tutte le Regioni i protocolli sul trattamento dei minori in caso di maltrattamento e abuso e sull’allontanamento dei minori dal nucleo familiare. Normalmente, la risposta avviene in cinque giorni. Stavolta ci hanno fatto attendere un mese. Quando la risposta è arrivata, però, era corredata dai protocolli utilizzati in tutte le AUSL della Regione, ad eccezione di quella di Reggio Emilia. Da questo si può dedurre che un funzionario regionale molto distratto si sia scordato di inviarci proprio il protocollo di Reggio Emilia. Oppure dobbiamo dedurre che tale protocollo non esiste perché non è ancora stato fatto? Su questo in particolare mi aspetto un po’ di chiarezza, visto che non mi è stato risposto prima. Lei ci lavora, quindi dovrebbe poter rispondere.

    Un’ultima cosa sul discorso della sperimentalità. Cito la brochure dove si presenta il convegno in oggetto: “La Cura è un servizio innovativo in cui i bimbi vittime di gravi traumi psicologici, quali la violenza sessuale e i maltrattamenti, vengono seguiti con psicoterapie specifiche e assistenza sociosanitaria competente, ma è anche un luogo, uno sguardo, un protocollo fuori dall’ordinario per affrontare, senza chiudere gli occhi e senza farsi sopraffare, le situazioni più complesse in tema di violenza sui minori”. Proprio perché non è solo un luogo, ed è una parte della risposta... Torniamo sempre su questo. Non vogliamo tormentarla, dottoressa. Approfittiamo della sua presenza per cercare di saperne qualcosa di più. Non vogliamo svolgere interrogatori, ma semplicemente cercare di capire qualcosa e di fare luce su questa vicenda.

    Grazie.

     

    Presidente BOSCHINI. Io non ho altri prenotati.

    Dopo questo giro di risposte congederei la dottoressa.

     

    (interruzione)

     

    Presidente BOSCHINI. Lasciamo la parola anche alla collega Mori e dopo passiamo alla risposta finale. Sennò andiamo veramente lunghi.

    Prego.

     

    Consigliera MORI. Grazie, presidente. Pensavo volesse terminare con la risposta ai colleghi.

    Grazie, intanto, per la disponibilità di essere qui. Grazie anche per alcune precisazioni rispetto al ruolo degli enti locali. Mi permetto di porle una domanda, anche perché è passato un po’ di tempo da quando facevo la sindaca, quindi può essere anche che gli elementi si siano rafforzati e siano cambiati e che anche la mia percezione di queste audizioni non sia completamente a segno.

    Volevo chiederle questo. La difficoltà che lei rappresentava è una difficoltà che mi sembra molto sulle spalle degli enti locali, in quanto titolari diretti dei servizi sociali, che però, come sempre accade nell’integrazione, abbisognano della disponibilità e della collaborazione di tanti soggetti, che purtroppo non possono impegnare o obbligare ad agire. Le chiedo: questo elemento un po’ di solitudine che in talune circostanze ci viene rappresentato, in termini di risorse economiche da stanziare spesso in modo urgente e immediato, non previsto nei bilanci, in modo da costruire esperienze positive con i propri ferri, eccetera, come si inserisce nella normativa nazionale. A noi sembra che, di fatto, il tema della frammentazione della normativa e di una grandissima responsabilità che non sia supportata da un’integrazione vera delle normative, dei protocolli sia, in realtà, un elemento non indifferente rispetto alla qualità dell’esito prodotto.

    Questo mi fa anche dire, se è vero che in un pronto soccorso abbiamo bisogno, giustamente, di evidenziare la necessità delle priorità, perché non è automatico, probabilmente sarebbe necessaria un’integrazione molto forte, un po’ più imperativa, un po’ più direzionale da parte di quelle che, invece, dal nazionale ci arrivano, ad esempio, come raccomandazioni del Garante dell’infanzia nazionale, che sono raccomandazioni molto utili, ma che sicuramente non possono svolgere il ruolo un po’ più imperativo, obbligatorio e anche di chiarificazione delle responsabilità richieste. Le chiederei, dal punto di vista tecnico, lei come vede questo. Un pezzo del nostro ruolo di Commissione, oltre che di analisi e di assunzione dei dettagli per poter analizzare meglio gli accadimenti, è anche quello un po’ propositivo. Il suo ruolo mi sembra molto utile in questo senso, se lei potesse.

    Una domanda anche rispetto a questi protocolli. Il tema del protocollo è sempre un tema con molti soggetti intorno a un tavolo. So che le linee di indirizzo sono state svolte con tanti incontri con la magistratura, le forze dell’ordine, eccetera. Vorrei sapere se i protocolli riescono, secondo la sua valutazione, a tenere insieme un po’ tutti gli sguardi. Giustamente, lei dice: è chiaro, i servizi sociali hanno un’ottica di azione, di processare l’azione che ci viene richiesta dalla magistratura, però poi tutti gli altri soggetti hanno una libertà che... In questo senso, le chiedo se i protocolli che vi siete dati sono efficaci o se sono, sostanzialmente, cornici.

    La cosa, inoltre, che mi sembra di poter dire è che il costo dei servizi, quindi il costo di tutela dei minori, è un costo notevole. Ebbene, vorrei capire, se è possibile – più o meno, perché a me interessano i macronumeri –, che cosa viene corrisposto in termini di finanziamenti nazionali e che cosa, invece, prende spunto e legittimazione da risorse più o meno proprie, e per risorse proprie intendo anche regionali. Glielo chiedo perché a quei costi sui minori io ricordo che, ai miei tempi, era il Comune che doveva farvi fronte. Intendo anche quelli non previsti. Del resto, il problema della sostenibilità anche di un’azione di qualità sarebbe quello di programmazione, ma sappiamo bene che in alcuni casi è assolutamente impossibile, quindi in questo senso le chiedo un suo parere.

    Grazie.

     

    Presidente BOSCHINI. Do la parola alla dottoressa. Anticipo solo che, fra qualche minuto, dovrei lasciare la Presidenza al Vicepresidente perché ho un contestuale impegno istituzionale. Mi scuso anche con la dottoressa. Prego.

     

    Dott.ssa SCRITTORE. Parto dalla prima domanda, tornando alla situazione di cui mi avete chiesto. Le modalità sono state concertate con le forze dell’ordine. Quindi, mi sento di dire, sul come si è agito, che prima abbiamo cercato di capire come si poteva fare insieme alle forze dell’ordine, perché questo era anche possibile fare. Quindi, certo che il magistrato non dice come, ma, ripeto, se un magistrato fa un provvedimento di quella natura, sapendo bene le condizioni, lascia poco margine, e nel margine noi cerchiamo di fare il meglio alle condizioni date, se gli adulti non sono sempre così pronti e disponibili a forme diverse.

    Per quanto riguarda gli affidi, ritengo che i nostri numeri non siano allarmanti. I nostri numeri sono compositi, ovvero dentro ai nostri numeri di affidi ci sono… Badate, la parola “affidi” tiene dentro molte forme. La parola “affido” tiene dentro la forma dell’affido a tempo pieno e tiene dentro la forma dell’affido part time. L’affido part time è circa il 50 per cento dei nostri affidi. Ho qui i dati – se vuole, glieli do – della provincia di Reggio Emilia nell’anno 2017. Ebbene, gli affidamenti a tempo parziale consensuale, nell’anno 2017, sono stati 133, gli affidamenti giudiziali a tempo parziale 13. Questi non sono allontanamenti, sono bambini che stanno a casa con il supporto di altre famiglie. Gli affidi consensuali a tempo pieno sono stati 26, gli affidi giudiziali a tempo pieno 180. Mi sembra che questo ci dica che i nostri sono dati compositi, non allarmanti. “Composito” significa che possiamo proporre diverse forme, per fortuna, perché questo è consentito dalla direttiva regionale dell’Emilia-Romagna: possiamo proporre supporti graduati a seconda del bisogno, possiamo affiancare una famiglia in difficoltà per qualche pomeriggio alla settimana, per qualche weekend, possiamo affiancare una famiglia a un’altra famiglia per un periodo, possiamo affiancare una famiglia ad un’altra famiglia, invece, quando c’è bisogno anche di interventi più intensivi, fino ad arrivare a proporre un’accoglienza di un bambino a un’altra famiglia perché c’è la necessità di farlo.

    Abbiamo più affidi perché abbiamo meno inserimenti in comunità. La scelta che è stata fatta nel nostro territorio da moltissimi anni è di privilegiare, soprattutto per i bambini piccoli, fino possibilmente ai 9-10 anni, l’accoglienza in famiglia, ritenendo che questa sia una forma la più vicina possibile anche a una vita più affettiva, più normalizzata.

    Preferiamo l’affido alle case famiglia. Nella provincia di Reggio Emilia, se voi andate a vedere, ci sono pochissime case famiglia, a differenza di altri territori, e non è un caso. Ci sono meno case famiglia, dove i bambini sono di più, ovviamente, rispetto all’affido familiare, che consente solo l’accoglienza di due bambini, e non di più, perché quello che la famiglia può offrire anche in termini di integrazione, di relazione, di possibilità di sviluppo, di modello è diverso, e noi l’abbiamo privilegiato nelle nostre scelte territoriali e nelle nostre scelte di servizio. Tutte le famiglie fanno un percorso formativo e informativo e un percorso di conoscenza.

    Ci sono anche famiglie che si rendono disponibili per periodi molto brevi in situazioni di emergenza. Ad esempio, può capitare che si possono fare allontanamenti in emergenza anche attivando il 403 con l’inserimento in famiglia, perché – per fortuna, mi sento di dire – non dobbiamo sempre attivare le comunità. Per fortuna, ci sono ancora, anche se i numeri ci preoccupano, perché c’è una diminuzione delle disponibilità, il che, a nostro parere, è un dato preoccupante, famiglie che si rendono disponibili a disorganizzare il proprio tempo nell’arco di una giornata, se c’è bisogno di accogliere un bambino perché in quel momento non può rimanere all’interno della propria famiglia. Credo che questo vada visto come una soluzione ottimale da perseguire. Credo anche che occorra dire un grande grazie a queste famiglie, perché le situazioni che proponiamo a loro sono situazioni molto difficili, molto complesse. Non sono bambini premurosi, attenti e cordiali, quelli che proponiamo a loro, ma sono bambini molto sofferenti, sono bambini aggressivi, sono bambini iperattivi, sono bambini provocatori, per le storie vissute che hanno avuto. Quindi, non proponiamo a loro un compito facile, ma proponiamo a loro un compito molto difficile. Forse è anche per questo che le famiglie sono in diminuzione, perché per accollarsi una responsabilità e un onere di questo tipo bisogna essere davvero molto solidali.

    Rispetto ad altre forme, certo abbiamo anche altre forme d’intervento. Non c’è solo l’affido, non c’è solo la comunità. Ad esempio, in questi anni abbiamo molto sviluppato l’educativa familiare, anche intensiva. Abbiamo situazioni in cui, se c’è la necessità, abbiamo anche attivato anche 25-30 ore di intervento educativo a domicilio, pur di non fare qualcosa di diverso. Ovviamente, questo non si fa per tutti, ma in ragione delle situazioni che ci sono e in ragione – mi sento anche di dire – di quello che gli adulti genitori riescono a mettere a disposizione, perché una parte di disponibilità a crescere, pur nelle difficoltà personali, i propri figli gli adulti ce la devono mettere, sennò noi non li possiamo aiutare. Quindi, c’è un tema di corresponsabilità nella crescita, nella cura, nella protezione e anche nelle azioni che arrivano di conseguenza. Quindi, esistono altre forme. I centri educativi pomeridiani sono altre forme ancora di accoglienza. Ce ne sono varie e diverse, più o meno intensive, più o meno estensive anche in termini di orari.

    C’è un’attenzione ad andare incontro alle diverse esigenze, il che porta – mi riaggancio a quello che diceva la dottoressa Mori – al fatto che i bilanci comunali sono bilanci che mettono a disposizione molto anche in termini economici, con risorse prevalentemente proprie. Del resto, se arriva il provvedimento del tribunale che dispone l’allontanamento e magari sono quattro figli, dobbiamo trovare una soluzione congruente ai loro bisogni, non purché sia, e dobbiamo far fronte anche a questi, ed è importante far fronte anche a questi ultimi tipi di interventi che vanno, invece, nella direzione di sostenere e promuovere, e non sostituirsi, perché è sempre importante riuscire a non sostituirsi. Quindi, questo viene sempre prima. Si arriva all’allontanamento proprio quando proprio non è possibile fare altro.

    Sul tema della sperimentazione, il luogo non è una presa in giro. Questo ci tengo a sottolinearlo, prima di tutto perché avere un luogo dove andare e fare interventi anche terapeutici da parte del pubblico o da parte del privato sociale e avere anche un luogo allestito con un certo pensiero e in un certo modo non vuole essere una presa in giro, perché a volte i luoghi non li abbiamo. Conviviamo in tre o in quattro in uno stesso ufficio e non sempre abbiamo luoghi dove fare incontri protetti dignitosi. Questo ci tengo a dirlo perché il luogo non è mai né banale né scontato.

    Dentro quel luogo, poi, c’erano incontri di équipe, di quelle che possiamo chiamare équipe specialistiche. La scelta della Val d’Enza era stata una scelta di investire su un piccolo gruppo di professionisti che potesse dedicarsi in modo più specifico al tema del maltrattamento e dell’abuso, che potesse occuparsi in modo più specifico di questo tema anche interagendo con altre professionalità, quindi avendo la possibilità anche di interagire con un avvocato. Non tutti i distretti ce l’hanno, non tutti i distretti riescono a farlo e possono farlo, avendo la possibilità, dal momento che questo l’avevano provato a mettere in campo anche con un’interazione più continuativa con il medico legale anche in termini consulenziali. Anche questo non è dato e non è scontato. Il tema della presenza del medico legale è un tema di grande sofferenza: non sempre si riescono ad avere i medici legali nella misura, nei tempi, nelle modalità e nelle forme in cui vorremmo averli, perché è un consulente interessante di cui potersi avvalere. Poi sicuramente anche il fatto di poter avere interlocutori esterni con cui confrontarsi.

    Nessuno nega che ci possa essere stato un utilizzo del centro “Hansel e Gretel” in termini di consulenza e di interazione. Non lo nascondo, perché questo è di pubblico dominio. Abbiamo anche fatto percorsi formativi di primo livello con loro. Quindi, non si rinnega quello che, almeno a livello provinciale, è stato fatto. La formazione di primo livello è una formazione che è stata portata avanti, peraltro in un’unica soluzione. D’altronde, la formazione si può fare in tanti modi. In alcuni momenti c’è anche bisogno di partecipazioni esterne. Se penso al Comune di Reggio Emilia, successivamente noi abbiamo rinforzato alcune competenze attivando, invece, un’autoformazione interna, mettendo a disposizione livelli di autocompetenze che ciascuno di noi aveva. Questa è un’altra forma, ad esempio, di accompagnamento che si può mettere a disposizione dentro i servizi.

    Per quanto riguarda il protocollo, se l’Azienda non l’ha mandato, non so che dirvi. Lo dovete chiedere all’Azienda USL, che io non rappresento in questo momento. Quello che posso dire per il distretto di Reggio Emilia è che, all’interno del Piano di zona, abbiamo fatto un documento, anche molto dettagliato, che individua le reciproche responsabilità e i percorsi e i processi di lavoro, vale a dire chi fa che cosa. È un accordo di programma, non è un protocollo, perché è la normativa che prevede che si possono attuare accordi di programma, dove vengono individuati i dispositivi organizzativi, gli obiettivi da raggiungere, le figure professionali investite e il tipo di casistica che deve essere trattata. Questo per noi è stato importante riuscire ad averlo.

    Da ultimo, sulla frammentazione, sulla linea guida e sulla cogenza, le linee guida non sono cogenti. Pertanto, il fatto che ci possano essere norme, anziché linee guida, sicuramente aiuta. Io non sono tenuta ad applicare le linee guida, eppure le applico, perché credo che siano importanti e interessanti. Del resto, se sono state fatte, significa che era necessario mettere un’attenzione lì. Però, le norme aiutano molto di più, perché sono più cogenti. Ci sono molte linee guida nell’ambito dei minori, mentre c’è poca normativa che pone l’attenzione sul minore. C’è molta normativa che dispone cosa devono fare gli adulti, come ci si regola tra adulti, come ci si comporta tra adulti, che cosa succede agli adulti se non fanno qualcosa o se fanno una certa cosa, mentre non c’è normativa specifica sul minore.

    Io lo dicevo con qualcuno: nel 2018, il Garante per l’infanzia nazionale ha emanato la carta di attenzione nell’ambito delle separazioni, di attenzione ai diritti dei minori. Ebbene, allora mi sono detta, in modo un po’ provocatorio, tra me e me: non sono contenta di questa carta. D’altronde, se occorre che il Garante dell’infanzia nazionale emani una carta di attenzione rispetto ai diritti dei minori nei procedimenti separativi, vuol dire che noi adulti abbiamo fallito, vuol dire che ci si separa male, vuol dire che quei diritti non vengono tenuti in attenzione.

    Le linee guida, però, non sono cogenti. Noi cerchiamo il più possibile di applicarle, noi che ci occupiamo di quest’ambito specifico e che, quindi, abbiamo maturato non solo una competenza, ma anche una certa sensibilità rispetto ai contenuti e agli argomenti, un’attenzione ai bambini e alla crescita, a favorire buone opportunità di crescita nei territori a condizioni date. Però, sicuramente, se io devo andare a discutere con l’Azienda USL sull’opportunità di mettere prima il bambino maltrattato e abusato per l’utilizzo della stanza del day hospital nel pronto soccorso e la stanza è una, vince l’adulto, signori. Vince l’adulto, non vince il bambino, perché spesso l’adulto è più grave quando arriva, perché il maltrattamento e l’abuso arrivano dopo, se non è in fin di vita. Ma speriamo che non arrivi in fin di vita.

    Le norme, se riusciamo ad applicarle bene, aiutano, perché non chiedono di contrattare, chiedono di attuare, che è diverso. Le linee guida riusciamo a farle bene se siamo tutti d’accordo, se riusciamo a trovare buone soluzioni attraverso buone contrattazioni. Ci impegniamo tutti su questo, non sto dando addosso a nessuno. Dico solo che, però, se cambiano le persone e se cambiano le condizioni, è più difficile, perché è meno cogente.

     

    Igor TARUFFI, Presidente della Commissione. Passo adesso la parola alla consigliera Piccinini.

     

    Consigliera Silvia PICCININI. Vorrei porle una domanda rispetto alle linee di indirizzo. Siccome lei ha partecipato al tavolo di stesura, desidero focalizzare la sua attenzione su un punto, che ho rimarcato in diverse Commissioni, su un passaggio particolarmente importante, anche dopo i fatti che sono emersi nella Val d’Enza, ed è il passaggio in cui si raccomanda acché il racconto del minore non subisca sopravvalutazioni o sottovalutazioni e, quindi, sia raccolto in maniera oggettiva. Credo sia un punto fondamentale. Però, come si diceva prima, è solamente una raccomandazione, purtroppo.

    Le chiedo, allora, visto che sussistono diverse visioni rispetto all’approcciarsi a questo tema, come fare per evitare che quel tipo di vulnus possa accadere o ricapitare, appunto che gli assistenti sociali evitino di approcciarsi in modo errato. Quindi chiedo come fare affinché anche queste linee di indirizzo – ripeto, quello è un passaggio che io condivido e approvo il fatto che sia stato inserito nero su bianco – vengano rispettate all’interno dei servizi sociali perché gli assistenti si attengano a queste linee di indirizzo.

     

    Presidente TARUFFI. Raccogliamo anche la domanda del Consigliere Facci.

     

    Consigliere FACCI. Dottoressa, alcune precisazioni rispetto a quanto lei ha appena detto, in risposta alla collega Mori, sul discorso linee guida, linee di indirizzo.

    Noi abbiamo audito diverse persone, tra cui anche il dottor Masi, il quale ha fatto parte, anzi, ha coordinato il pool di professionisti, nella redazione delle linee di indirizzo regionali. Il dottor Masi è stato molto chiaro nel distinguere il concetto delle linee di indirizzo e il concetto delle linee guida. Le linee di indirizzo non sono cogenti perché sono raccomandazioni e le linee guida invece sono raccomandazioni.

    Le linee guida in genere le elabora la comunità scientifica. Poi abbiamo visto che all’interno della comunità scientifica ci sono diverse impostazioni sulle line-guida. C’è chi dice che devono prevalere le linee guida del SINPIA, richiamate dalla Carta di Noto, quindi sei società scientifiche da una parte. Abbiamo, non le chiamerei neanche linee guida, le indicazioni, o comunque le linee elaborate dal CISMAI, che sostanzialmente sono racchiuse nella dichiarazione di consenso. Non è una differenza banale, perché lei sa perfettamente di cosa parliamo. C’è un approccio più garantista e un approccio differente, molto più per certi aspetti invasivo, che è quello appunto della dichiarazione del consenso, laddove elencano i famosi indicatori di abuso.

    Non tocca a me decidere chi deve prevalere, però io credo che quando lei dice: in realtà non è normato, non sia corretto. Certo, se lei dice: devono esserci delle norme, quindi gerarchia delle fonti allo stesso livello, convengo; ma quante volte la comunità scientifica elabora le famose best practice, fondamentalmente per sopperire a vuoti? Si tratta di capire che valore bisogna dare alle best practice. Ci sono anche le famose leggi Gelli-Bianco, talché se il medico non segue le best practice, può essere fonte di responsabilità, eccetera. Questa è una precisazione che vorrei fare perché nella sua osservazione questo l’ho trovato molto sfumato, e a mio avviso, un po’ approssimativo.

    Domanda – chiedo scusa sulla premessa –: nelle linee di indirizzo regionali c’è un passaggio, non mi ricordo esattamente la pagina, in cui fondamentalmente si richiamano, quasi mettendole sullo stesso piano, le dichiarazioni di consenso del CISMAI e le indicazioni della Carta di Noto. Visto che lei è stata parte di questo pool le chiedo se secondo lei c’è equivalenza fra queste diverse, differenti indicazioni.

    Seconda domanda: come mai nel centro sperimentale “La Cura” di Bibbiano, se lo sa, se in qualche modo ha potuto partecipare al processo decisionale, se non ha partecipato al processo decisionale quale giudizio ha dato, come mai la scelta di ricorrere a una realtà privata come quella di Hansel e Gretel, in luogo di altre realtà particolari pubbliche che avrebbero potuto fornire eguale, se non ovviamente migliore assistenza?

    Terzo: le chiedo se lei ritiene che il metodo cosiddetto “Foti-Bolognini”, o “metodo Hansel e Gretel”, che è stato anche oggetto di attenzione nella vicenda del centro “La Cura” sia un metodo soddisfacente e adeguato ai casi oggetto di valutazione. Grazie.

     

    Presidente TARUFFI. Se non ci sono altre domande, io lascerei la parola alla dottoressa, che ringraziamo per la disponibilità e quindi chiudiamo con le domande. Prego.

     

    Dott.ssa SCRITTORE. Rispetto alla domanda sugli assistenti sociali e a come si fa a far sì che i contenuti delle linee di indirizzo rispetto all’ascolto vengano tenute presenti, questo lo si fa attraverso incontri periodici, intanto, di formazione, informazione e aggiornamento. Quello dell’aggiornamento è cioè un tema che ci interroga costantemente, soprattutto perché il turnover del personale ci costringe a fare periodici aggiornamenti rispetto a diversi contenuti, metodi e pratiche di lavoro, quindi rispetto a come l’assistente sociale è, mantenendo un costante aggiornamento, informandosi su come si fa e mantenendo un costante aggiornamento, man mano che il personale cambia. Non so se ho risposto.

    Sulle dichiarazioni di consenso sulla Carta di Noto, sono state ammesse entrambe, è vero che non sono esattamente sovrapponibili e coincidenti, però la scelta di tenerle dentro entrambe è esattamente relativo a quello che ha detto lei in premessa, cioè che ci sono ancora ampi dibattiti attorno a questo, è un non cerchio che non è ancora chiuso. Siccome è un cerchio che non è ancora chiuso, che responsabilità avevamo noi nel decidere chi tenere dentro e chi lasciare fuori, non essendo chiuso il cerchio? Cioè, la materia è una materia altamente complessa: dico una cosa banale, una cosa che voi sapete bene. Ma non solo. Anche le comunità scientifiche, man mano producono sempre più aggiornamenti. C’è un “prima neuroscienze” e un “dopo neuroscienze”, c’è un “prima Parma” e un “dopo Parma”, su questo. Quante cose abbiamo imparato noi dalle neuroscienze, che non sapevamo prima? E quante cose ci hanno confermato che erano solo intuizioni di professionisti, che nel lavoro mettevano insieme indicatori? Siccome sappiamo bene quello che è scritto, prima di metterci mano e di attualizzarlo, con tutta una serie di documenti, ai quali anch’io ho partecipato negli anni in Regione e a livello locale, passano davvero degli anni, la possibilità che ci fossero un confronto, una dialettica comunque aperta: sono state queste la tensione e l’attenzione. Sul “metodo Foti” non c’è un “metodo Foti”, mi sento di dire. Io non so gli altri cosa hanno detto, francamente, però quanto a dire che c’è un “metodo Foti”, ci sono approcci, ci sono modalità di lavoro, ci sono riferimenti. Ma un metodo, una “metodologia Foti”… Quello che io posso dire, per quello che io ho visto, per l’esperienza che ho frequentato, quello che ha portato all’interno del percorso formativo di base è stata la possibilità di avere un approccio che tenesse conto dell’intelligenza emotiva come orientamento. Quando dico “Intelligenza emotiva” penso che sappiate di che cosa stiamo parlando.

    Per un professionista, utilizzare l’intelligenza emotiva e non trincerarsi dietro le proprie paure, lasciare aperta la possibilità di entrare in contatto con le proprie emozioni, per risuonare le emozioni degli altri, ma anche per governare le proprie nelle relazioni con gli altri, sicuramente può aiutare. Su questo, io non mi sento di parlare di un “metodo Foti”, l’ha inventato qualcun altro.

    Rispetto al perché sia stato scelto questo rispetto a un altro, sul piano dei privati non glielo so dire perché non ho partecipato io alla scelta. Tra pubblico e privato però posso dire qualcosa, non tanto pubblico, non tanto privato, Hansel e Gretel o qualcun altro. Perché c’è necessità di ampliare gli interventi di cura? C’è necessità di ampliare gli interventi di cura perché il pubblico non riesce sempre a garantire la cura, non riesce sempre ad arrivare in tempo e per tempo, non ha sempre professionisti. Il primo passaggio è sempre all’interno del servizio pubblico, ma il servizio pubblico in ambito sanitario non sempre riesce a corrispondere, e gli stessi professionisti si occupano del percorso di valutazione, del trattamento e della cura.

    Capita che, se si lavora sulla valutazione, poi non si hanno i tempi concreti dei singoli professionisti, quindi è un tema di risorse per lavorare poi anche sulla cura. un po’ come dire: “ti faccio una buona diagnosi, o ti faccio comunque una diagnosi, poi però non riesco a metterti a disposizione il trattamento, perché non ho la possibilità di avere i professionisti che lo facciano.

    Questo è un tema molto serio, soprattutto perché l’ambito della salute dei bambini, se io guardo al supremo interesse, dovrebbe essere un ambito prioritario.

    La cura dei bambini in questo ambito non sempre si riesce a farla assumere come prioritaria, in termini, ripeto, di allocazione di risorse (parlo di questo). Di questo si è molto trattato a diversi piani e a diversi livelli, non solo a livello locale, ma anche ad altri livelli: il tema dell’accessibilità delle cure e delle cure pubbliche e il fatto di non dover fare una graduatoria: “prima l’abuso sessuale conclamato, quello non conclamato mah, chissà, forse, prima il grave maltrattamento”; “e la violenza assistita?”; “eh, ci dispiace, forse, vediamo se ci sono delle ore disponibili…”.

    Perché poi arriviamo a questo, noi, arriviamo a fare una graduatoria e a dire: questo va per primo, semaforo rosso; per questo no, ti metti in coda, lista di attesa, forse; questo no, perché questo non è grave, quindi non ci arriva. È questa la situazione dei nostri servizi quando lavoriamo tutti i giorni.

     

    Presidente TARUFFI. Ringraziamo la dottoressa Daniela Scrittore, che abbiamo tartassato di domande per una quantità sufficiente di tempo.

    Se non ci sono altri interventi e se non ci sono altre richieste di intervento, a questo punto chiudiamo la seduta. Ci rivediamo mercoledì 2 ottobre, alle ore 11, con l’audizione del dottor Francesco Raphael Frieri, direttore generale risorse Europa, innovazione istituzione della Regione Emilia-Romagna e della dottoressa Tamara Simoni, responsabile del Servizio pianificazione finanziaria e controlli della Regione Emilia-Romagna.

    Grazie, ci vediamo mercoledì.

     

     

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